God save Kenosha. Storie di trote, genio e cemento.

trout

Metà agosto. 4 del mattino. In un mese che è lavorativamente uguale agli altri, orari del genere sono l’unico modo per vedere Chicago senza traffico. Recupero Dom a un incrocio, poi via sull’autostrada, troppo stanchi per avere sonno. Ci sono tesi di dottorato da scrivere, spettri quotidiani che incombono. Ma il richiamo dell’acqua rimane un diritto inalienabile, specie in momenti come questi. Torniamo a pescare assieme dopo 5 anni. Ci eravamo conosciuti nella primavera del 2010 su un porticciolo del sud della città, intenti nel lanciare esche a caso in acque a noi sconosciute.  Per due immigrati affetti dalla stessa silenziosa malattia – io dalla Valtellina e lui dalle coste di Sydney –diventare amici fu istantaneo. Da lì, tante avventure nei porti della metropoli, a bordo di biciclette cariche di attrezzatura e autobus poco raccomandabili. Ogni tanto prendevamo anche qualche pesce. Poi lui, guida safari e fotografo professionista, si trasferì con la moglie in Tanzania.  E’ tornato la settimana scorsa per il matrimonio di un amico. E così, come se niente fosse, siamo in viaggio. Canne e mulinelli sparsi ovunque.

La meta

La meta

Siamo diretti a nord, nella terra di industrie e capannoni che separa Chicago da Milwaukee. Non ci accontentiamo di due bass cittadini all’ombra di Soldier Field. Vogliamo le trote, è nel nostro DNA. E in questa stagione, con l’acqua calda, l’unico modo per avere speranze è uscire dalla città, dirigersi a nord, battere i porti con l’acqua profonda. Alla ricerca di quelle correnti d’acqua fredda che, in un lago più grosso dell’Adriatico, portano i predatori vicino a riva anche in piena estate. La destinazione è Kenosha, sbrodolamento urbano di 100mila abitanti subito dopo il confine tra Illinois e Wisconsin, e al tempo stesso uno dei porti più pescosi della sponda occidentale di Lake Michigan. Il tipico buco che non è nè città nè campagna, col nome esotico che ricorda i nativi e tutt’attorno il purgatorio paesaggistico del Midwest.

Li chiamano “Flyover states”, gli stati sopra cui si vola. Un modo falsamente simpatico per dipingere l’irrilevanza di questi territori intermedi, in cui nessuno manda i corrispondenti illuminati, e di cui si nota l’esistenza solo quando si guarda giù dal finestrino durante i voli che collegano le due coste. Ma noi, uomini pratici, vogliamo i pesci, non i furgoni di hippy o gli spazi di co-working. E così, mentre fuori è ancora buio, ne ne sbattiamo di questi snobismi liberali, macinando con ansia i chilometri. Gone fishing avremmo appeso sulla porta dell’ufficio, se ne avessimo uno.

Trote. Il pesce della montagna. Pensi a boschi, torrenti, cime, cieli irreali. E polente che girano aspettando il ritorno a casa. Peccato che qui sia un po’ diverso. La pianura domina. E la natura è morta 200 anni fa, quando la legna dei boschi che furono venne spedita giù lungo il lago per costruire una città di dieci milioni di abitanti, più tutte quelle attorno. Rimangono campi, industrie, capannoni, qualche ettaro di foresta ripiantata, fiumi in afissia. E poi l’acqua infinita di questo lago, che ha subito ogni violenza ambientale possibile, eppure continua a conservare un suo strambo equilibrio. Di specie native ne rimangono poche: pesci persici, bass, rarissimi lavarelli, lucci sporadici.

Non il tipico rifugio di montagna

Non il tipico rifugio di montagna

Tutto il resto è frutto di intrusione, dalle prede ai predatori. Persino le trote non dovrebbero esserci. Hanno riempito la nicchia lasciata dai lucci e dai salmerini di lago, ormai ai confini dell’estinzione. Si sono adattate a cacciare lungo le scogliere i famigerati “goby”, i pescetti invasivi che hanno colonizzato tutti i fondali, a loro volta nutriti dalle invasive “conchiglie zebra”. Ne ingollano centinaia al giorno, crescendo a ritmi vertiginosi tra il cemento dei porti. Così facendo, diventano il sogno erotico dei pescatori. A cui della purezza della catena alimentare frega il giusto, quando ogni lancio presenta la speranza di sentire il mostro che abbocca all’altro capo della lenza.  Alaska o Wisconsin che sia.

5 e mezza di mattina. Inizia a fare chiaro quando arriviamo sul porto. Kenosha è un luogo dai contorni sociali selvaggi.  Lontano anni luce dai rifugi di montagna. A fianco a dove parcheggiamo una giovane coppia dorme in macchina. Hanno una pila di vestiti in una cesta sul sedile del guidatore, avanzi di cibo e caffè su quello a fianco. Roba sparsa ovunque. Gli schienali posteriori sono stati abbassati per creare spazio. Dormono abbracciati in un parcheggio pubblico, con il finestrino abbassato. Sembra cruda quotidianità, più che camporella. Poco più avanti, un poliziotto in bici chiede i documenti a un personaggio vestito di stracci, con lo sguardo spento. Lui esita, mostra il portafoglio ma non lo apre. Forse è un compito troppo arduo, in quel momento. Ma il poliziotto non ne vuole sapere. Clack. Ammanettato all’istante:  ostruzione alla giustizia. Davanti ai nostri occhi, prima che sorga il sole.  Fucking America dice a bassa voce Dom. Terra di contrasti, l’America[1] direbbe con aria affranta il corrispondente illuminato dalla poltrona di Washington. E io mi limiterei ad allargare le braccia, impotente, se non avessi una tonnellata di attrezzatura da pesca in mano che rischia di ruzzolare in acqua.

Lungo il molo c’è tanta biodiversità. Sulla terra, non nell’acqua. Due vecchi incalliti pescano appollaiati sulla ringhiera di metallo con cui si scende al bordo di pontile più vicino all’acqua. Vedendoci arrivare ci incenerisconono con lo sguardo. Messaggio recepito: non possiamo metterci a meno di cento metri di distanza. These people are like don’t touch my gun commenta Dom. “Tipica gente che non vuole che si tocchi la loro pistola”. Non è una battuta. O forse non lo è tanto come dovrebbe esserlo. Più avanti ci imbattiamo in un ispanico con baffetti che agita una strana canna da pesca d’altura, di quelle che si vedono nei video di pesca al tonno. Dom vorrebbe fermarsi e chiedergli che diavolo abbia intenzione di prendere con quella roba, ma la mia fretta di iniziare a pescare lo convince a seguirmi. Arriviamo in fondo. Sulla punta, un quarantenne con polpacci enormi pesca da una seggiola che si è portato a casa, contemplando la distesa immensa di Lake Michigan con aria riflessiva. Ha fare calmo, posato. Sull’imboccatura del porto, invece, un genitore diligente tenta la fortuna con la figlioletta di 6 anni. Che per motivi misteriosi, nonostante l’orario da chiodi, mostra più entusiasmo del padre, mentre tiene la sua cannetta in attesa dell’abboccata.

Tira un vento gelido. Il cielo è cupo, con le nuvole bassissime. E’ agosto, ma potrebbe essere novembre. Il padre è loquace. Parla con Dom e gli mostra le sue catture del giorno prima sul telefono. Holy shiiiit commenta Dom, esaltato. Ma oggi invece non si prende nulla, dice il padre, ferendo  il suo entusiasmo. Poco più in là, io ho appena iniziato. Tempo tre lanci, e il mio galleggiante si inabissa verso il fondo come se fosse trainato da un sottomarino. E’ il segnale di guerra. Lascio che il pesce si prenda un po’ di filo con se, dandogli il tempo di ingoiare l’esca. Poi, dopo qualche secondo, tiro deciso. Mi aspetto la lotta, sento già la sua forza bruta che tira verso l’abisso. E invece il tentativo va drasticamete a vuoto, uccidendo l’adrenalina. La trota si è portata via l’esca, il filo ritorna  indietro leggero come una piuma. Fuuuuck! commento. Mi hanno sentito in tutto il Midwest. Il padre mi lancia uno sguardo di rimprovero per il linguaggio scurrile. Poi si dimentica e viene opportunisticamente verso di me per vedere che esca stavo usando. Dom se la ride. Don’t worry, man. It’s coming! “Non preoccuparti, adesso arriva.” Sono le 6. Il sole in mezzo al lago fa capolino. L’aria continua a ferirci faccia e mani. C’e speranza.

E invece era l’occasione da sfruttare, che non sarebbe più tornata. Passano le ore e il lago sembra completamente privo di vita.  Dom parte in esplorazione del porto, dicendo di volersi scaldare. Dopo un’ora, torna trafelato. Da lontano gesticola, come se volesse andare da qualche parte. Forse si è rotto le palle e vuole tornare a Chicago. Ma sembra troppo entusiasta per nutrire un pensiero così cupo. Parla con frenesia.  That man’s rod is a fucking noodle. La canna di quell’uomo è uno spaghetto”.  Indica una sagoma lontana a metà del pontile di fronte. He got a beautiful brown. Wonderful fight. “Ha preso una splendida trota. Lotta stupenda”. “Quando?” chiedo io. Right now, man! Let’s go!

Mentre ci spostiamo, Dom sciorina l’analisi minuto per minuto della cattura. “Ha una canna minuscola, non ci posso credere che sia riuscito a tirare su quella bestia”. Gli chiedo se l’uomo ci sapeva fare, o se si trattava di un colpo di fortuna. “Pescava malissimo, infrangeva tutte le regole. Eppure, fidati di me. Chiaramente,  he knows what he’s doing”.  Gli arriviamo vicino. L’uomo è seduto sul cemento, con le gambe a penzoloni. ha un cappellino viola che sembra di una squadra di football del liceo locale. Reca invece la sigla di un ospedale religioso. Gli occhiali sembrano da vista, ma sono da sole. L’età è imprecisata. 60 anni, forse. I lineamenti orientali. Ma dopo sette anni in USA, si impara che i lineamenti non vogliono dire una sega.  Pesca con lo stesso spirito con cui gli umarell osservano i cantieri. Come se fosse lì per forza, trascinato dalla noia. E’ l’espressione di distacco da tutto, a partire da sè stesso, che lo rende magnetico.  Diverso da tutti gli altri. Dom lo saluta, di nuovo. Lui non ricambia. E’ assorto nella sua indifferenza.

Passa qualche minuto. Il vento è peggiorato,  rischia di trascinare via qualsiasi oggetto. Il tempo di pensarlo, e la bottiglia d’acqua sta scivolando via nella corrente. Detrito in più sulla lunga lista che vanta Lake Michigan. Con scetticismo, lancio la mia lenza. Dom, intanto, continua a tenere d’occhio l’uomo della cattura. Vuole che lo guardi anche io. Dice che secondo lui sta per arrivarne un’altra. Davanti a noi, spruzzi feroci indicano trote in caccia all’inseguimento dei branchi di pesce in superficie. Preso nel solipsismo che solo la vista di questi eventi può scatenare, non voglio saperne di interagire col mondo. Eppure,dì lì a poco, sarei stato costretto a farlo.

L’urlo di Dom trancia la noia. He’s on again. Holy shit! He’s on again. Annuncia un altro pesce. Ne ha presa un’altra. Dopo nemmeno venti minuti.  Il tempo di dirlo, e si sente il rumore continuo, inconfondibile, primordiale del mulinello che concede filo al pesce. Lo chiamano, con abitudine retorica, “il canto della frizione”. Per un pescatore è il rumore dell’orgasmo, lo stimolo che, dopo anni di condizionamento, si ossida al godimento. Pensate al rumore della retina su un tiro da tre, al tintinnio delle monete sui tuffi per Zio Paperone. Stessa roba. Eppure, per l’uomo dei misteri, sembra quasi un fastidio.

Kim in lotta

Kim in lotta

Ha la canna piegata sino all’impugnatura. Un fuscello in lotta contro un avversario chiaramente sproprozionato. Ma se ne sbatte. Tutt’intorno, invece, Kenosha prende vita. Dom urla, si agita. Due operai che stavano prendendo misurazioni abbandonano le bindelle. Si ferma anche un vecchio con la felpa dei Badgers, evidentemente non troppo ansioso di iniziare a pescare. Mi avvicino pure io, incuriosito. Pure un po’ incazzato. La lotta prosegue. Passano i minuti. L’attrezzatura, visibilmente troppo leggera, tiene. L’uomo dei misteri dà prova di grande maestria. Gestisce le fughe del pesce con calma olimpica. Limita i movimenti. Ha gesti morbidissime. Nelle mani di molti altri pescatori, quel pesce avrebbe già spaccato la lenza. He knows what he’s doing, e non di poco.  Poi, dopo minuti di combattimento, il pesce affiora. E’ una trota mostruosa. Grassa, potente, marrone. Con la mascella inconfondibile dei maschi, che per uno strano contrappasso, sono sempre apprezzati ai pescatori più delle femmine. Specie da quelli omofobi.  Grida di giubilo dal pubblico. Sguardi intrisi di eccitazione. Dom si autoelegge salvatore della patria e prende in mano il retino per recuperarla.  Gli operai con la tuta fosforescente sono in contemplazione. Solo il pescatore, impassibile, continua a seminare disprezzo sul resto del mondo. Quando il pesce atterra sul cemento, lo prende con noncuranza. Toglie l’amo, lo soppesa. 16 pounds dice. Tra i 7 e gli 8 kg.

la bestia sul cemento

la bestia sul cemento

Poi la ributta in acqua come se nulla fosse.  Era una trota da trofeo. Un pesce che molti pescatori nella vita si sognano. Roba da copertina patinata, foto sponsorizzata. Leggenda da vendere al barbiere. Ma non per lui. Sommerso dagli applausi, abbassa la testa. Sembra quasi contrito. Forse ha dei sentimenti. Dom lo sommerge di domande, ma lui fatica a rispondere. Il suo inglese è zoppicante. Difficile capire se sia più timido o scostante. Tra i mugugni capiamo che si chiama Kim. E’ coreano. Non vuole una foto in posa, per nessun motivo. Un minuto dopi, impacchetta la sua roba e si dirige verso le case della città. Will be back in an hour dice. L’unica frase completa di tutta la giornata. Non lo avremmo mai più rivisto.

Passano altre mezzore. Montiamo qualsiasi cosa troviamo nella cassetta degli attrezzi. Le trote a volte affiorano in mezzo al canale del porto. Rabbiose e affamate. Ma nessuna è interessata alle nostre esche. Alle tre del pomeriggio, grigliati dal vento, contempliamo la resa. White flaaag dice Dom, con la sua capacità di entusiasmarsi anche nella sconfitta. Incamminandoci verso la macchina incontriamo un altro pescatore. Baffi grigi, denti neri, occhialino da sole da ciclista. Settant’anni, o cinquanta portati malissimo. Lancia e recupera freneticamente. Ne ho presa una stamattina, mi ha spaccato tutto. Balla, non c’era. Ma è parte del gioco. Chiacchieriamo appassionatamente. Finisce ogni frase con yaaah. Sembra una caricatura, proprio come i personaggi di Fargo. Siamo in Upper Midwest, il Minnesota confina con il Wisconsin. Nessun accento accade per caso.  Poi gli raccontiamo quello che abbiamo visto. “Un coreano?” incalza lui. “Che pesca come una canna che sembra un noodle?” Confermiamo. “Si chiama Kim?”. Altra conferma. He’s the man! E così, veniamo a sapere che è il pescatore più famoso di Kenosha.  L’uomo che non parla con nessuno, e prende sempre qualcosa. “Ne prenderà 5 o 10 al giorno” dice. “E sapete la cosa bella? Yaah? He don’t give a shit. Yaaah!” Non gliene frega niente. Gli diciamo che lo abbiamo notato. Ultimi convenevoli. Poi ciascuno per la sua strada. Good luck! dice Dom. I need it! chiude lui. Classico dialogo tra pescatori erranti.

Via del ritorno. Molto materiale da elaborare. Per non addormentarci e finire fuori strada, io e Dom parliamo. Di pesci, ovviamente. E di personaggi come Kim. Geni che predicano sul cemento. Ogni porto del Wisconsin, ogni pontile di Chicago ne ha uno. Ma si trovano in tutto il mondo, dalla Valtellina alla Nuova Zelanda.  Man, Kim don’t care dice lui, ancora affascinato dall’impresa. “A Kim non gliene può fregar di meno”. Verrebbe da paragonarli alle stelle dei playground di New York, a quelle storie su grandi giocatori di basket che chissà che cosa sarebbero potuti diventare. Ma nella pesca il discorso non regge. Qualcuno ha vinto gare, si è riempito il cappello di sponsor, predica su youtube. Eppure i più sono rimasti sottotraccia, confinati nella fame locale, illuminando con i loro colpi di classe i luoghi dove operano. Persino quelli che nessuno vorrebbe conoscere.

P.s. Qui, il video della cattura. Grazie a Dom. E non solo per il video.

[1] Un saluto e un ringraziamento (cit.) a Stefano Olivari, se il suo amore per gli animali non gli impedisce di leggerci.

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