Un punto a Kloten

IMG_2462Quasi due anni dopo le imprese del porto di Kenosha, si torna a riempire questa pagina. Senza perdersi nei dettagli di come siamo finiti nuovamente al di qua dell’Oceano — non interessano a nessuno, e non sono del tutto chiari nemmeno a noi — siamo andati a rispolverare una recente trasferta svizzera, sulle tracce di luoghi e personaggi che, ai tempi di Lake Michigan, non sapevamo nemmeno esistessero. Riscoprendoci appassionati dello sport che in queste valli dà un senso a tutto: l’hockey su ghiaccio.

25 febbraio 2017

Si parte di buon mattino dall’inflessibile città di Costanza, subito al di là del confine tedesco, da quasi un anno nostra dimora. Il tempo di fare un semaforo, passare la dogana, ed entriamo di gran carriera in quello che in Svizzera, con fare altisonante, chiamano l’Altipiano. Un nome che evoca sparatorie da Far West e sterminate praterie desertiche in mezzo al New Mexico; è in realtà un fazzoletto di colline e industrie grande come una manciata di contee dell’Illinois, che esalta in maniera formidabile gli annunciatori della radio al momento delle previsioni del tempo. Sono questi territori d’oltralpe, lontani dalle montagne, che ospitano tutto ciò che che rende famosa la Svizzera, e che non ha a che fare con neve e piste da sci. I grandi laghi, Zurigo, Federer, Berna, le fabbriche degli orologi, le banche, l’innovazione, Ciriaco Sforza. Ed è qui che nei mesi invernali si riversano banchi di nebbia aggressivi e sinuosi, che riescono in una doppia, storica impresa: far sembrare le valli alpine più a sud delle succursali della California; e far rimpiangere le giornate di vento e -20 gradi di Chicago, pungenti e terse.

Non è il freddo, è l’umido. Anche a queste latitudini.

E infatti la nebbia c’è anche oggi, e non si nasconde. Ma noi, per una volta, siamo solo di passaggio. Ci divincoliamo da queste terre con impazienza, mentre la Radio della Svizzera Italiana — l’unica che riusciamo a capire, peraltro — passa un cocktail micidiale di Venditti, Vasco Rossi, meteore di Sanremo e approfondimenti sulle pratiche di cremazione dei cadaveri nelle vallate delle Alpi Retiche. “Ho detto a un mio amico che andavo in elicottero sul Pizzo Scalino a buttare giù mio nonno. Mi ha guardato malissimo” sghignazza un radioascoltatore valtellinese che interviene in diretta a raccontare la sua esperienza di spargitore di ceneri lungo l’Arco Alpino. “Ma erano le ceneri del nonno, no? Era già morto!”. Risate selvagge in studio.

Privati, contro la nostra volontà, delle trasferte di college basket, abbiamo deciso di esplorare la cosa che, in questo pezzo di Europa che non è nemmeno Europa, ci si avvicina maggiormente. L’hockey su ghiaccio. Destinazione finale: Ambrì, frazione di Quinto, subito al di là del tunnel del San Gottardo. I primi metri di Svizzera Italiana dopo il traforo. E’ un comune di mille abitanti scarsi con due attrattive cruciali: una pista da gioco di oltre seimila posti, sei volte tanto la popolazione locale; e una squadra in Lega Nazionale A, l’Ambrì-Piotta, che ogni weekend richiama tifosi provenienti da tutta la vallata del Ticino, oltre che dalle confinanti zone germanofone del cantone dell’Uri. Persone dall’orgogliosa identità montanara, profondamente alpina; l’esatto l’opposto dei cittadini tifosi del Lugano, l’acerrima rivale ticinese, che con l’Ambrì Piotta vanta una rivalità ricca di storia e colpi proibiti, sul ghiaccio e fuori. Siamo ai livelli di Kentucky e Louisville, Duke e Carolina. Paesaggi diversi, medesima follia. Quella che ci permettere di conservare ancora qualche speranza nel genere umano, nonostante tutto.

Il sole irrompe sulla scena dopo aver superato le sponde del lago di Lucerna — splendido, se solo si riuscisse a vederlo — diretti verso sud. La mole delle Alpi è ormai a picco sull’orizzonte. La Radio, indomita, continua a proporre contenuti. Prima un’intervista a Carmen Consoli, che con accento diversamente ticinese racconta di come i pastori siciliani usassero il comportamento delle lucciole per capire dove si trovassero i dirupi; poi la storia di un pastore altamente istruito e un po’ hipster, che ha aperto un ristorante di travolgente successo in cui le zuppe vengono servite dentro a scarpe di varie forme. Una pillola provvidenziale di Sogno Svizzero, capitalista e pastorale, prima di ripartire a raffica con Zucchero, Tiziano Ferro, e la meteo a ricordare trionfalmente che, Altipiano a parte, sarà soleggiato in ogni angolo del paese. E così, prima di potercene accorgere, abbiamo passato il tunnel del San Gottardo e sbuchiamo in Valle Leventina, pochi metri sopra il fiume Ticino. Lo stesso che, qualche centinaio di km più giù, tornerà presto a infestare di zanzare le pianure del nord Italia.

Siamo in anticipo per l’appuntamento con il padre, che ha deciso, per motivi ancora non del tutto chiari, di partire da Sondrio per aggregarsi a questa spedizione. Senza pensarci troppo, imbocchiamo l’uscita di Airolo, il primo paese del Ticino venendo da nord. E’ un posto che gli appassionati di sci conoscono bene per essere stato il territorio su cui Lara Gut, campionessa italo-ticinese tanto fenomenale quanto sfortunata, ha mosso i primi passi da agonista. Superato uno svincolo pauroso, vediamo da lontano le case del paese che scrutano la valle, abbarbicate sul versante giusto. Quello che, almeno per qualche ora, riesce a strappare un po’ di esposizione al sole. Potremmo tranquillamente essere in una downtown di una cittadina del Wyoming. Una strada, sei negozi, due hotel. Tutti radunati davanti alla stazione. Distorti dagli anni negli USA, ci aspettiamo targhe, placche, musei, magliette celebrative. Lara parked here affisso su ogni striscia blu dei parcheggi pubblici. E invece l’unico fremito di vita è un’enorme bandiera biancoblu appesa alla vetrina di un bar. Forza Ambrì-Piotta, fino alla fine. Dall’altra parte della strada, una gigantesca scritta affissa a un muro. Lo yogurt di montagna che fa Muuuuhh. Pubblicità autarchica della Regione del San Gottardo. Della Gut nessuna traccia.

Da Airolo ad Ambrì ci vogliono nemmeno 10 minuti. Volano via lungo una delle autostrade più importanti dell’Arco Alpino. Una via di comunicazione perennemente trafficata, che continua a rendere questa valle altamente strategica. Anche dopo che la costruzione della galleria di base del Gottardo, il tunnel ferroviario più lungo del mondo, ha decimato il traffico di superficie. Ed è proprio in posti come questi, dove tutti transitano e nessuno si ferma, che le località ai bordi della valle rimangono dei rumori di sottofondo, perennemente dimenticati. Un oblio che è la loro condanna, ma pure la loro salvezza. Ma non c’è tempo per perdersi in piccole riflessioni da neo-no-global delle valli. Passato l’enorme Autogrill alle porte del Ticino, dove l’odore di piadina bruciacchiata e caffè regala le prime avvisaglie italiane agli immigrati che tornano a casa per Natale, appare la meta di giornata. IMG_2410Un capannone dal tetto curvo, ai piedi del monte, già quasi in ombra. Con la sua mole domina la striscia di case che ha intorno. E’ la Valascia, la pista da gioco dell’Ambrì-Piotta, tragicamente ultimo in classifica. Alle 19.45 andrà in scena l’ultima partita di stagione regolare: una intrigante sfida italo-francofona contro un Losanna già con la testa ai playoff.

Mancano esattamente 9 ore alla partita. Trovato il padre, si impone un sopralluogo. Ambrì si mostra senza veli:  2 km di strada in linea retta che procede tra capannoni, case, spiazzi. Ci sono una scuola, bar, alberghi dalle insegne smunte, un campetto con le retine in ferro. IMG_2425E una stazione ferroviaria, ovviamente. Nonostante un inverno secco e tutt’altro che rigido, ai bordi della strada dominano cumuli di neve e sconfinate spianate di ghiaccio vivo. Il sole, dopo due mesi di assenza forzata dietro alla montagna, è appena ricomparso. La Valascia si presenta come ce l’aspettavamo. Un capannone di legno e lamiera protetto dall’ombra. Un po’ Hinkle Fieldhouse, un po’ Pianella, ma con un’aura montanara che aggiunge mistero. Sul lato del parcheggio, “1937” scritto a caratteri giganteschi, anno di fondazione della squadra; sul lato della montagna, uno striscione “Forza Ambri, fino alla fine”. Come quello del bar di Airolo. Dentro, rumore di mazze e pattini. Ci dicono essere una partita delle giovanili.

Bisogna ritirare il biglietto, diligentemente prenotato su internet alcune settimane prima. E’ bastato compilare un modulo elettronico richiedendo la partita di interesse; la mattina dopo, subito la conferma della segretaria, con un messaggio tanto entusiasta quando chiaro: pagamento in loco, cancellazione fino a 24 ore prima della partita. E una postilla finale, in grassetto: se anche non ci si presenta, bisogna pagare comunque. Ancora incerti se si tratti di ingenua fiducia nel consumatore o di un ennesimo segno della devastante efficienza elvetica — un sospetto ce l’avremmo, e in ogni caso non ci sarebbe mai saltato in mente di non presentarci — cerchiamo la biglietteria. Dopo aver girovagato tra lastre di ghiaccio e ghiaia, troviamo uno sportello, grande come il gabbiotto di un casello autostradale. Biglietti tribune, riservazione. Il posto giusto, se non fosse che la saracinesca è inesorabilmente abbassata. Chiediamo lumi a un personaggio appoggiato al muro. E’ alto due metri, capelli bianchi, pizzetto incolto. Sta fumando. Chiaramente uno che alla Valascia ne ha viste tante. Ci fissa per qualche secondo avvolto nel fumo, impassibile. Siamo pronti a ripetere la domanda in inglese, ancora convinti di trovarci in Wyoming, quando l’uomo ha un segno di vita. Ma non so, prima della partita. Osiamo chiedere una fascia oraria più precisa. Alle cinque. Ma anche alle sei.  Lui ci fissa ancora, e dopo un’eternità ha un ultimo fremito. Ma non ci sono problemi stasera, va la. Ringraziamo di cuore e ci allontaniamo. 

Genitori con accenti francesi sono le uniche forme di vita, oltre ai rumori che arrivano dall’interno. Tutto il resto, dal negozio di merchandising al bar, è avvolto in un silenzio imperturbabile. Con almeno sette ore da investire prima che questo posto inizi a prendere vita, setacciamo quello che l’alta Leventina ha da offrire. Non poco, a conti fatti. C’è tempo per fare man bassa di trote al Laghetto Audan. Un luogo d’altri tempi, dove una signora di origini bergamasche riesce a venderci a prezzi astronomici una mozzarella fiordilatte di un caseificio locale, spacciandola per una tipica primizia del luogo. Non è mica la Galbani, ripete almeno dieci volte, prendendoci per sfinimento, e approfittando subdolamente della nostra fame. E infatti, si sarebbe rivelata molto peggio, spugnosa come una bistecca che ha passato la cottura. C’è pure il tempo per una breve escursione lungo i tornanti che dominano il lato est della valle, fino a raggiungere Altanca. Stazione di posta abbarbicata al pendio, coperta di ghiaccio e neve, curiosamente ravvivata da un bed and breakfast hippy con la bandiera arcobaleno a illuminare il panorama. Vorremmo fermarci, bere il caffè, annusare l’atmosfera. E chiedere ai proprietari cosa vota la pancia della Svizzera, possibilmente con aria affranta. Ma appena volgiamo lo sguardo al fondovalle, la dominante Valascia ci ricorda della nostra missione. Alla partita mancano solo due ore. Qualcosa ci dice che su questi monti ci torneremo in estate, con una canna da pesca, senza eventi sportivi a distrarci.    

Attorno alla Valascia, le macchine hanno colonizzato entrambi i lati della strada. Sotto lo sguardo accigliato di un vigile — pronto per andare a combattere al fronte, se non fosse che siamo in terra neutrale — ci infiliamo nell’ultimo buco rimasto utile: un fazzoletto a ridosso della ferrovia. Fuori portata per Mercedes e Suv, e invece perfetto per la Panda. L’unico veicolo con targa italiana di tutta la valle. La piana di Ambrì si è improvvisamente riempita di vita. Fuori dalla pista, drappelli di sessantenni con cuffia rossa e marcato accento franco-svizzero tracannano birra e fumano con ossessione. Sono tifosi del Losanna con alle spalle una trentina di trasferte in Leventina — le squadre della Lega A si sfidano almeno quattro volte all’anno, e a volte anche sei — che salutano i locali con cortesia mista a diffidenza. Ritirati i biglietti, ci infiliamo nel negozio ufficiale del club, spinti dal freddo e dalla curiosità. Ci accoglie una signora premurosissima e loquace. Chiaramente stuzzicata dalla vista di due clienti stranieri e sprovveduti. Racconta di avere parenti a Morbegno e a Tirano, mentre rovescia sul bancone tutte le linee di felpe e magliette dal 1995 a oggi. Considerandoci dei semi-conterranei — siamo nell’unico punto del globo terrestre, oltre alla Valtellina stessa, in cui è più facile fare amicizia parlando di Sondrio che di Firenze o Bologna — ci racconta la storia della sua vita, mentre il figlio, con spiccata mentalità imprenditoriale, propone senza sosta arditi pacchetti. Cuffia sponsorizzata, sciarpa con il logo Ambrì-Piotta, e un biglietto in gradinata: 70 CHF, quasi 70 Euro. Comunque più economico della mozzarella del laghetto. Rifiutiamo con cortesia, lanciandoci su un felpone pesantissimo della stagione 2012, il logo ben in vista. Mentre paghiamo, la signora continua a parlare, salvo poi interrompersi di colpo. Lo sguardo fisso sulla porta d’ingresso, gli occhi improvvisamente illuminati. Oh, va’ che l’è scià il Losanna. L’avversario è arrivato.

Si torna fuori. Nell’ara pungente del tardo pomeriggio, al fianco di un baracchino in legno, un paiolo rimesta incessantemente un blocco di polenta enorme, denso come cemento. IMG_2437Il menu prevede polenta e salsiccia, polenta e latte, polenta e basta; oltre a un composto ruspante di polenta, patate e raclette, dalla consistenza omogenea e dall’irresistibile odore di muffa e formaggio. Una primizia a cui nessuna persona cresciuta in una vallata  alpina — e noi non facciamo certo eccezione — è in grado di resistere. E così, ne divoriamo avidamente una doppia porzione, mentre ci appostiamo in disparte a osservare la Valascia che prende vita. Pochi metri più in là, quattro settantenni sono immersi in una discussione vivacissima sulle sorti della squadra, come teletrasportati da un barbiere della zona. Con la regular season ormai finita, ci sarà un gironcino di playout all’italiana, al termine del quale le ultime due — quasi certamente Ambri e Friborgo — si sfideranno in una serie spareggio. Arrivare penultimi vorrebbe almeno dire poter giocare in casa la bella. Tre di loro propongono analisi e soluzioni per raggiungere la salvezza. Il quarto ascolta la conversazione con la testa inclinata, avvolto in un lunghissima giacca a vento nera; il logo dell’Ambrì intarsiato all’altezza del taschino. Un indumento chiaramente speciale, fuori commercio e in tiratura limitata, cui solo pochi eletti hanno potuto avere accesso. Forte di un evidente diritto di veto, cassa tutto quello che viene detto, gesticolando quanto basta. Bisogna fare la corsa sul Friborgo. Altre discussioni, più sul versante tecnico. Parte la provocazione. E comunque, in sto mortorio qui, meglio giocare in trasferta. Risate e bevute, fette di crostata e vin brulè. Poi, provati da una temperatura ormai sotto zero, si disperdono. Cristo, che frecc dice il più loquace. Non addormentarti gli fa eco un altro. Rimane solo il decano con la giacca a vento. Prende un bignè dal baracchino vicino e attacca bottone con un coetaneo, concentrato su un bianchino. Ti dico, bisogna fare la corsa sul Friborgo.

Altro lato della pista. Il freddo inizia a farsi sentire. Il parcheggio è dominato dai camion della TV Svizzera e da un altro baracchino che vende indesiderabili bibite fresche, tra cui l’imbevibile Rivella. Poi, in tempo reale, il silenzio viene rotto da una decina di giocatori del Losanna in felpa e calzoncini corti. Escono di corsa dalla Valascia e iniziano a giocare a torello tra le macchine parcheggiate, intenti a riscaldarsi per la partita. Si passano la palla con tecnica perfetta, incuranti del gelo e del ghiaccio, senza farla mai cadere. E senza colpire nessuna auto. Una dimostrazione di abilità resa ancora più notevole dal fatto che continuano a parlare e sghignazzare, mischiando francese, tedesco e inglese, senza confondersi. La Svizzera, in un fotogramma. Sullo sfondo, le montagne della Leventina si stagliano ancora contro il cielo, quasi a voler fare un ultimo saluto al fondovalle prima di scomparire alla vista. Incantati dallo spettacolo, staremmo in contemplazione per delle ore. Solo il gelo ci convince a tornare di là. Oltre al fatto che all’ingaggio d’inizio mancano solo 20 minuti.

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La Valascia ci riserva un’accoglienza ruspante, in linea con l’aspetto esterno. Seggiolini rustici, corridoi angusti, spazi ristretti, rifiniture minimali. Elementi visti e rivisti in qualsiasi palestra di college basket con un po’ di storia alle spalle. La differenza più eclatante, rispetto alle esperienze precedenti, è però la temperatura interna. Sostanzialmente identica a quella del parcheggio. Ci sistemiamo a metà tribuna. Protetti da un doppio pile, dalla felpa appena acquistata e da un provvidenziale paio di pantaloni da alpinismo, siamo perfettamente a nostro agio. Altrettanto non si può dire del padre, presentatosi con un abbigliamento decisamente inadeguato ai rigori della Leventina. Inizia a battere le gambe dal freddo quando le squadre non sono scese ancora in pista. Non sarebbe tornato ad avare una temperatura corporea normale fino al mattino dopo, svariate ore dopo il rientro a Sondrio. Per lui, un impatto con l’hockey svizzero drammatico.

Attorno a noi, spuntano come funghi coperte, colbacchi, piumini, trapunte. Alcune griffate Ambrì Piotta, altre più neutre. Era da un Cubs-Mets di fine maggio 2011, giocato sotto una combinazione di neve e freezing rain orizzontale che copriva persino la vista dello skyline di Chicago, che non vedevamo un tale sfoggio di vestiario termico a un evento sportivo. Mentre gli spalti si riempiono, la Gioventù Biancoblu, rappresentante del tifo organizzato dell’Ambrì, prova a riscaldare l’atmosfera, sfoderando cori di incitamento, insulti a Lugano, e un enorme bandierone di Che Guevara, probabilmente donato dal Bed and Breakfast pacifista di Altanca. C’è un clima interlocutorio, quasi di attesa. La stagione è stata troppo brutta per essere ottimisti. Ma la partita conta troppo poco per impanicarsi davvero. E così, nell’insieme, ne viene fuori un’atmosfera moderatamente allegra, senza preoccupazione. Lo devono pensare anche i tifosi del Losanna, che rispondono ai primi cori  dei locali con una raffica di fumogeni, che impestano l’aria di zolfo e fumo mentre le squadre scendono in pista.

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Difficile trovare uno sport in cui la differenza tra guardare una partita dal vivo e una in tv sia tanto abissale. Calcio, basket, baseball, football. Tutti più belli quando sei sul posto. Ma l’hockey si trasforma proprio. Un po’ perché — luogo comune in arrivo   il disco si vede senza problemi, al contrario della TV; e un po’ perché solo così si può apprezzare davvero l’intensità fisica e atletica di questa disciplina. Dove il contatto è pressoché continuo, il gioco si interrompe relativamente di rado, e la capacità di coordinazione dei giocatori rimane un mistero insondabile. Soprattuto se si considera che stanno sparando in giro un oggetto a oltre 100 km/h, muovendosi alla velocità della luce su un elemento in cui tre quarti degli esseri umani cadrebbero faccia a terra all’istante. Senza dimenticare lo spazio acustico, ricchissimo di elementi. C’è il suono dei giocatori che sbattono sulla balaustra, quello delle mazze che colpiscono il puck, quello dei pattini che grattano sl ghiaccio. Una novità, per chi è abituato a uno sfondo sonoro uniforme, dominato da palleggi e scarpe che cigolano. E così, con una conoscenza delle regole solo basilare, e senza nessuna competenza tattica, ci si perde nel ritmo dei ribaltamenti di fronte continui, che fanno passare il tempo senza nemmeno che ce ne si possa accorgere. Se le partite inutili sono così, figuriamoci quelle decisive.

Forte di una caratura tecnica nettamente superiore, il Losanna domina i primi dieci minuti, senza però trovare la porta. Sbandando, la difesa dell’Ambrì tiene in qualche modo. Si prosegue senza tregua, con la folla che si desta per qualche ingaggio particolarmente focoso, e per un paio di penalità consecutive che gli arbitri sanzionano ai padroni di casa. Ce ne accorgiamo giusto perché siamo proprio davanti alla gabbia dei “cattivi”, la zona di infamia dove i giocatori vengono rinchiusi per scontare le espulsioni temporanee, comunissime nell’hockey. Poi, verso la fine del primo tempo, arriva il gol dell’Ambrì, che dà una scossa a tutto l’ambiente. La Gioventù Biancoblu prova a spingere la squadra con cori che non sentivamo dal vivo dalle finali scudetto italiane di basket del 2006, nelle notti d’estate in cui Andrea Bargnani sembrava lanciato verso una carriera dominante, e tutto il mondo ci appariva più in armonia con sé stesso. Piomba sull’animo una nostalgia composta, mentre ci uniamo alla standing ovation che accompagna l’Ambrì al primo dei due intervalli. Ci risveglia la faccia bluastra del padre ci ricorda di vicende più terrene, spingendoci nei meandri della Valascia alla ricerca di una bevanda calda per rallentare i sintomi dell’assideramento. Altre 3500 persone, più o meno il totale dei presenti per la serata, hanno avuto la stessa idea. 

I corridoi dell’arena sono la versione subalpina dei caruggi di Genova. In un’aria spessa carica di fumo, gonfia di odori, gli stessi personaggi del piazzale commentano i primi venti minuti di gioco, formando focolai di conversazione che rendono la vita impossibile a chi vuole semplicemente guadagnare la porta del cesso. Tre distinte signore in pelliccia, esponenti della più fiorente borghesia montanara, fumano una sigaretta in disparte. “Oh, ci volevano i giovani” dice una. “Almeno corrono” risponde l’altra. Parlano di tre giocatori prelevati in settimana dai Ticino Rockets, la squadra satellite di serie B dove le squadre del Ticino fanno crescere i propri talenti. Nel disincanto di una stagione disastrosa, il disprezzo verso i mercenari stranieri è l’unica cosa a cui aggrapparsi. Facendoci strada negli spazi ristretti, rimediamo un punch gagliardissimo, a temperature da nucleo stellare, che minaccia di sciogliere il bicchierino che lo contiene. Vorremmo tornare in postazione prima che l’aria artica risucchi il calore, ma la strada per la tribuna è irta di ostacoli. In mezzo al corridoio, due personaggi avvistati un’ora prima attorno alla raclette tirano le somme. Uno è un rampante cinquantenne: mascella tonica, occhiali hipster, piumino lucente. Sostiene che il Losanna stia giocando a perdere. “Vogliono solo evitare il derby col Ginevra. Se volevano giocare, erano già sopra 3-0”. L’altro è un settantenne in giacca a vento, protetto fino agli occhi da una cuffia di lana ruvidissima. “Beh, almeno l’ultima non l’abbiamo persa secca”. Si riferisce alla trasferta di Kloten della sera prima, persa ai supplementari. Il che, nell’hockey, garantisce un punto in classifica anche agli sconfitti. “Ueeeh!” scoppia a ridere di scherno quello col piumino, facendo ballonzolare la mano con sarcasmo. “Un punto a Kloten. Tanta roba”. 

Potrebbero proseguire per un’altra ora, se la sirena, come le luci del teatro, non ricordasse a tutti che il secondo tempo sta per iniziare. In un istante, la folla è già in postazione, per altri 40’ di freddo e sofferenza. Il resto della partita avrebbe seguito il medesimo copione. Cori, applausi, lamenti per gli errori difensivi, rassegnazione. E bestemmioni a pioggia per arbitri ed avversari per ogni penalità non fischiata. Pure da personaggi apparentemente posati, che fino a quel momento non si erano mossi dal loro posto di tribuna nemmeno per un gesto di stizza. Alla fine, la spunta proprio l’Ambrì. Avanti anche 3-1, e poi in trincea per tutti gli ultimi 5 minuti dopo aver subito il gol del 2-3. Ma l’assalto del Losanna, forse viziato dal desiderio di evitare il Ginevra, avrebbe prodotto solo mischie e ingaggi, senza reali occasioni da gol. E così, nemmeno l’attacco finale senza portiere produce risultati, mentre la Valascia saluta una vittoria tanto inutile quanto liberatoria. E’ comunque motivo per cantare la Montanara, canto alpino nato tra i monti di Trento e il Monte Rosa, e adottato dalla Gioventù Biancoblu come inno post-partita per celebrare le vittorie. Rare, come sostengono beffardamente i tifosi del Lugano. Ma non abbastanza da non averne mai viste.

Downtown Ambrì, di nuovo. Questa volta è buio pesto, le montagne definitivamente sparite. Rallentato dal freddo e dalla birra, il corteo dei tifosi defluisce dal parcheggio. Qualcuno si stacca e si dirige verso Quinto, dall’altro lato dell’autostrada. Gli altri puntano dritti sulla stazione, dove un treno speciale è pronto ad aspettarli. Percorre il Ticino sino a Bellinzona, riportando tutti a casa. E’ gratis per gli abbonati, ovviamente tranne che per i derby col Lugano. Efficienza elvetica, dicevamo. Lasciata passare la folla, ci divincoliamo dall’ingorgo di macchine, immettendoci finalmente sulla A2. Tutti prendono la direzione sud, verso il resto del cantone; solo noi, orgogliosamente controcorrente, avanziamo a grandi falcate verso il tunnel del Gottardo, pronti a riabbracciare le nebbie dell’Altipiano. Dentro la galleria, la Radio è tornata a parlare. Con buona pace di Carmen Consoli e delle ceneri dei defunti, il palco è tutto per After Hockey, la trasmissione che segue le partite. Omar Gargantini, giornalista di RSI che si contraddistingue per l’eccellente ritmo nelle radiocronache e per un misterioso quanto viscerale tifo per l’Avellino Calcio, fa il punto della situazione. Tutta l’attenzione è invece per gli imminenti playoff del Lugano, che finisce settimo e becca al primo turno il favoritissimo Zurigo. Un punto in più, e ci sarebbe stato lo Zugo. Meno talento, più equilibrio, e trasferta più corta. Al commento tecnico partecipa anche un tifoso, scelto di volta in volta per affiancare il conduttore. Non ha un eloquio troppo fluente, ma se la cava egregiamente. La vittoria dell’Ambrì viene invece derubricata a successo simbolico. C’è però anche il tempo per un intervento di Filippo Lombardi, presidente della squadra, registrato a bordopista. Si scusa per la stagione, invita i tifosi a non mollare, promette un futuro migliore. Con senso pratico, Gargantini suggerisce invece di agire in termini più pratici. Ad esempio,  fare la corsa sul Friborgo.

Titoli di coda — Sono passati tre mesi dalla trasferta alla Valascia. Per chi freme dalla brama di colmare i vuoti di sceneggiatura ecco cosa è successo nel frattempo. Il Losanna, nonostante i tentativi di autosabotaggio, ha proprio beccato al primo turno il Ginevra, prendendole di santa ragione come l’Indiana di Paul George contro i Cavs di LeBron. La saggezza popolare ci aveva visto giusto, come (quasi) sempre. Il Lugano, con somma sorpresa, ha sbattuto fuori lo Zurigo con un perentorio 4-2, arrendendosi solo ai futuri (e passati) campioni del Berna. Lo Zugo, quello più morbido e con la trasferta breve, è invece arrivato in finale, dove avrebbe strappato ben due partite allo stesso Berna. Infine, l’Ambrì. La corsa sul Friborgo è fallita miseramente. Ultimo posto in classifica, fattore pista perso, e sonante sconfitta ai playout proprio contro il Friborgo stesso. Per fortuna loro, e pure nostra, prima della retrocessione c’è un’ultima prova d’appello, contro la vincente della serie inferiore. Contro un agguerrito ma tecnicamente modesto Langenthal, è arrivato il sospirato 4-0, che ha chiuso i conti e garantito un altro anno nella massima serie. Si riparte a ottobre. Proprio con un derby. Inutile dire che faremo di tutto per esserci. Come se fosse Duke-Carolina.

  

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