Un punto a Kloten

IMG_2462Quasi due anni dopo le imprese del porto di Kenosha, si torna a riempire questa pagina. Senza perdersi nei dettagli di come siamo finiti nuovamente al di qua dell’Oceano — non interessano a nessuno, e non sono del tutto chiari nemmeno a noi — siamo andati a rispolverare una recente trasferta svizzera, sulle tracce di luoghi e personaggi che, ai tempi di Lake Michigan, non sapevamo nemmeno esistessero. Riscoprendoci appassionati dello sport che in queste valli dà un senso a tutto: l’hockey su ghiaccio.

25 febbraio 2017

Si parte di buon mattino dall’inflessibile città di Costanza, subito al di là del confine tedesco, da quasi un anno nostra dimora. Il tempo di fare un semaforo, passare la dogana, ed entriamo di gran carriera in quello che in Svizzera, con fare altisonante, chiamano l’Altipiano. Un nome che evoca sparatorie da Far West e sterminate praterie desertiche in mezzo al New Mexico; è in realtà un fazzoletto di colline e industrie grande come una manciata di contee dell’Illinois, che esalta in maniera formidabile gli annunciatori della radio al momento delle previsioni del tempo. Sono questi territori d’oltralpe, lontani dalle montagne, che ospitano tutto ciò che che rende famosa la Svizzera, e che non ha a che fare con neve e piste da sci. I grandi laghi, Zurigo, Federer, Berna, le fabbriche degli orologi, le banche, l’innovazione, Ciriaco Sforza. Ed è qui che nei mesi invernali si riversano banchi di nebbia aggressivi e sinuosi, che riescono in una doppia, storica impresa: far sembrare le valli alpine più a sud delle succursali della California; e far rimpiangere le giornate di vento e -20 gradi di Chicago, pungenti e terse.

Non è il freddo, è l’umido. Anche a queste latitudini.

E infatti la nebbia c’è anche oggi, e non si nasconde. Ma noi, per una volta, siamo solo di passaggio. Ci divincoliamo da queste terre con impazienza, mentre la Radio della Svizzera Italiana — l’unica che riusciamo a capire, peraltro — passa un cocktail micidiale di Venditti, Vasco Rossi, meteore di Sanremo e approfondimenti sulle pratiche di cremazione dei cadaveri nelle vallate delle Alpi Retiche. “Ho detto a un mio amico che andavo in elicottero sul Pizzo Scalino a buttare giù mio nonno. Mi ha guardato malissimo” sghignazza un radioascoltatore valtellinese che interviene in diretta a raccontare la sua esperienza di spargitore di ceneri lungo l’Arco Alpino. “Ma erano le ceneri del nonno, no? Era già morto!”. Risate selvagge in studio.

Privati, contro la nostra volontà, delle trasferte di college basket, abbiamo deciso di esplorare la cosa che, in questo pezzo di Europa che non è nemmeno Europa, ci si avvicina maggiormente. L’hockey su ghiaccio. Destinazione finale: Ambrì, frazione di Quinto, subito al di là del tunnel del San Gottardo. I primi metri di Svizzera Italiana dopo il traforo. E’ un comune di mille abitanti scarsi con due attrattive cruciali: una pista da gioco di oltre seimila posti, sei volte tanto la popolazione locale; e una squadra in Lega Nazionale A, l’Ambrì-Piotta, che ogni weekend richiama tifosi provenienti da tutta la vallata del Ticino, oltre che dalle confinanti zone germanofone del cantone dell’Uri. Persone dall’orgogliosa identità montanara, profondamente alpina; l’esatto l’opposto dei cittadini tifosi del Lugano, l’acerrima rivale ticinese, che con l’Ambrì Piotta vanta una rivalità ricca di storia e colpi proibiti, sul ghiaccio e fuori. Siamo ai livelli di Kentucky e Louisville, Duke e Carolina. Paesaggi diversi, medesima follia. Quella che ci permettere di conservare ancora qualche speranza nel genere umano, nonostante tutto.

Il sole irrompe sulla scena dopo aver superato le sponde del lago di Lucerna — splendido, se solo si riuscisse a vederlo — diretti verso sud. La mole delle Alpi è ormai a picco sull’orizzonte. La Radio, indomita, continua a proporre contenuti. Prima un’intervista a Carmen Consoli, che con accento diversamente ticinese racconta di come i pastori siciliani usassero il comportamento delle lucciole per capire dove si trovassero i dirupi; poi la storia di un pastore altamente istruito e un po’ hipster, che ha aperto un ristorante di travolgente successo in cui le zuppe vengono servite dentro a scarpe di varie forme. Una pillola provvidenziale di Sogno Svizzero, capitalista e pastorale, prima di ripartire a raffica con Zucchero, Tiziano Ferro, e la meteo a ricordare trionfalmente che, Altipiano a parte, sarà soleggiato in ogni angolo del paese. E così, prima di potercene accorgere, abbiamo passato il tunnel del San Gottardo e sbuchiamo in Valle Leventina, pochi metri sopra il fiume Ticino. Lo stesso che, qualche centinaio di km più giù, tornerà presto a infestare di zanzare le pianure del nord Italia.

Siamo in anticipo per l’appuntamento con il padre, che ha deciso, per motivi ancora non del tutto chiari, di partire da Sondrio per aggregarsi a questa spedizione. Senza pensarci troppo, imbocchiamo l’uscita di Airolo, il primo paese del Ticino venendo da nord. E’ un posto che gli appassionati di sci conoscono bene per essere stato il territorio su cui Lara Gut, campionessa italo-ticinese tanto fenomenale quanto sfortunata, ha mosso i primi passi da agonista. Superato uno svincolo pauroso, vediamo da lontano le case del paese che scrutano la valle, abbarbicate sul versante giusto. Quello che, almeno per qualche ora, riesce a strappare un po’ di esposizione al sole. Potremmo tranquillamente essere in una downtown di una cittadina del Wyoming. Una strada, sei negozi, due hotel. Tutti radunati davanti alla stazione. Distorti dagli anni negli USA, ci aspettiamo targhe, placche, musei, magliette celebrative. Lara parked here affisso su ogni striscia blu dei parcheggi pubblici. E invece l’unico fremito di vita è un’enorme bandiera biancoblu appesa alla vetrina di un bar. Forza Ambrì-Piotta, fino alla fine. Dall’altra parte della strada, una gigantesca scritta affissa a un muro. Lo yogurt di montagna che fa Muuuuhh. Pubblicità autarchica della Regione del San Gottardo. Della Gut nessuna traccia.

Da Airolo ad Ambrì ci vogliono nemmeno 10 minuti. Volano via lungo una delle autostrade più importanti dell’Arco Alpino. Una via di comunicazione perennemente trafficata, che continua a rendere questa valle altamente strategica. Anche dopo che la costruzione della galleria di base del Gottardo, il tunnel ferroviario più lungo del mondo, ha decimato il traffico di superficie. Ed è proprio in posti come questi, dove tutti transitano e nessuno si ferma, che le località ai bordi della valle rimangono dei rumori di sottofondo, perennemente dimenticati. Un oblio che è la loro condanna, ma pure la loro salvezza. Ma non c’è tempo per perdersi in piccole riflessioni da neo-no-global delle valli. Passato l’enorme Autogrill alle porte del Ticino, dove l’odore di piadina bruciacchiata e caffè regala le prime avvisaglie italiane agli immigrati che tornano a casa per Natale, appare la meta di giornata. IMG_2410Un capannone dal tetto curvo, ai piedi del monte, già quasi in ombra. Con la sua mole domina la striscia di case che ha intorno. E’ la Valascia, la pista da gioco dell’Ambrì-Piotta, tragicamente ultimo in classifica. Alle 19.45 andrà in scena l’ultima partita di stagione regolare: una intrigante sfida italo-francofona contro un Losanna già con la testa ai playoff.

Mancano esattamente 9 ore alla partita. Trovato il padre, si impone un sopralluogo. Ambrì si mostra senza veli:  2 km di strada in linea retta che procede tra capannoni, case, spiazzi. Ci sono una scuola, bar, alberghi dalle insegne smunte, un campetto con le retine in ferro. IMG_2425E una stazione ferroviaria, ovviamente. Nonostante un inverno secco e tutt’altro che rigido, ai bordi della strada dominano cumuli di neve e sconfinate spianate di ghiaccio vivo. Il sole, dopo due mesi di assenza forzata dietro alla montagna, è appena ricomparso. La Valascia si presenta come ce l’aspettavamo. Un capannone di legno e lamiera protetto dall’ombra. Un po’ Hinkle Fieldhouse, un po’ Pianella, ma con un’aura montanara che aggiunge mistero. Sul lato del parcheggio, “1937” scritto a caratteri giganteschi, anno di fondazione della squadra; sul lato della montagna, uno striscione “Forza Ambri, fino alla fine”. Come quello del bar di Airolo. Dentro, rumore di mazze e pattini. Ci dicono essere una partita delle giovanili.

Bisogna ritirare il biglietto, diligentemente prenotato su internet alcune settimane prima. E’ bastato compilare un modulo elettronico richiedendo la partita di interesse; la mattina dopo, subito la conferma della segretaria, con un messaggio tanto entusiasta quando chiaro: pagamento in loco, cancellazione fino a 24 ore prima della partita. E una postilla finale, in grassetto: se anche non ci si presenta, bisogna pagare comunque. Ancora incerti se si tratti di ingenua fiducia nel consumatore o di un ennesimo segno della devastante efficienza elvetica — un sospetto ce l’avremmo, e in ogni caso non ci sarebbe mai saltato in mente di non presentarci — cerchiamo la biglietteria. Dopo aver girovagato tra lastre di ghiaccio e ghiaia, troviamo uno sportello, grande come il gabbiotto di un casello autostradale. Biglietti tribune, riservazione. Il posto giusto, se non fosse che la saracinesca è inesorabilmente abbassata. Chiediamo lumi a un personaggio appoggiato al muro. E’ alto due metri, capelli bianchi, pizzetto incolto. Sta fumando. Chiaramente uno che alla Valascia ne ha viste tante. Ci fissa per qualche secondo avvolto nel fumo, impassibile. Siamo pronti a ripetere la domanda in inglese, ancora convinti di trovarci in Wyoming, quando l’uomo ha un segno di vita. Ma non so, prima della partita. Osiamo chiedere una fascia oraria più precisa. Alle cinque. Ma anche alle sei.  Lui ci fissa ancora, e dopo un’eternità ha un ultimo fremito. Ma non ci sono problemi stasera, va la. Ringraziamo di cuore e ci allontaniamo. 

Genitori con accenti francesi sono le uniche forme di vita, oltre ai rumori che arrivano dall’interno. Tutto il resto, dal negozio di merchandising al bar, è avvolto in un silenzio imperturbabile. Con almeno sette ore da investire prima che questo posto inizi a prendere vita, setacciamo quello che l’alta Leventina ha da offrire. Non poco, a conti fatti. C’è tempo per fare man bassa di trote al Laghetto Audan. Un luogo d’altri tempi, dove una signora di origini bergamasche riesce a venderci a prezzi astronomici una mozzarella fiordilatte di un caseificio locale, spacciandola per una tipica primizia del luogo. Non è mica la Galbani, ripete almeno dieci volte, prendendoci per sfinimento, e approfittando subdolamente della nostra fame. E infatti, si sarebbe rivelata molto peggio, spugnosa come una bistecca che ha passato la cottura. C’è pure il tempo per una breve escursione lungo i tornanti che dominano il lato est della valle, fino a raggiungere Altanca. Stazione di posta abbarbicata al pendio, coperta di ghiaccio e neve, curiosamente ravvivata da un bed and breakfast hippy con la bandiera arcobaleno a illuminare il panorama. Vorremmo fermarci, bere il caffè, annusare l’atmosfera. E chiedere ai proprietari cosa vota la pancia della Svizzera, possibilmente con aria affranta. Ma appena volgiamo lo sguardo al fondovalle, la dominante Valascia ci ricorda della nostra missione. Alla partita mancano solo due ore. Qualcosa ci dice che su questi monti ci torneremo in estate, con una canna da pesca, senza eventi sportivi a distrarci.    

Attorno alla Valascia, le macchine hanno colonizzato entrambi i lati della strada. Sotto lo sguardo accigliato di un vigile — pronto per andare a combattere al fronte, se non fosse che siamo in terra neutrale — ci infiliamo nell’ultimo buco rimasto utile: un fazzoletto a ridosso della ferrovia. Fuori portata per Mercedes e Suv, e invece perfetto per la Panda. L’unico veicolo con targa italiana di tutta la valle. La piana di Ambrì si è improvvisamente riempita di vita. Fuori dalla pista, drappelli di sessantenni con cuffia rossa e marcato accento franco-svizzero tracannano birra e fumano con ossessione. Sono tifosi del Losanna con alle spalle una trentina di trasferte in Leventina — le squadre della Lega A si sfidano almeno quattro volte all’anno, e a volte anche sei — che salutano i locali con cortesia mista a diffidenza. Ritirati i biglietti, ci infiliamo nel negozio ufficiale del club, spinti dal freddo e dalla curiosità. Ci accoglie una signora premurosissima e loquace. Chiaramente stuzzicata dalla vista di due clienti stranieri e sprovveduti. Racconta di avere parenti a Morbegno e a Tirano, mentre rovescia sul bancone tutte le linee di felpe e magliette dal 1995 a oggi. Considerandoci dei semi-conterranei — siamo nell’unico punto del globo terrestre, oltre alla Valtellina stessa, in cui è più facile fare amicizia parlando di Sondrio che di Firenze o Bologna — ci racconta la storia della sua vita, mentre il figlio, con spiccata mentalità imprenditoriale, propone senza sosta arditi pacchetti. Cuffia sponsorizzata, sciarpa con il logo Ambrì-Piotta, e un biglietto in gradinata: 70 CHF, quasi 70 Euro. Comunque più economico della mozzarella del laghetto. Rifiutiamo con cortesia, lanciandoci su un felpone pesantissimo della stagione 2012, il logo ben in vista. Mentre paghiamo, la signora continua a parlare, salvo poi interrompersi di colpo. Lo sguardo fisso sulla porta d’ingresso, gli occhi improvvisamente illuminati. Oh, va’ che l’è scià il Losanna. L’avversario è arrivato.

Si torna fuori. Nell’ara pungente del tardo pomeriggio, al fianco di un baracchino in legno, un paiolo rimesta incessantemente un blocco di polenta enorme, denso come cemento. IMG_2437Il menu prevede polenta e salsiccia, polenta e latte, polenta e basta; oltre a un composto ruspante di polenta, patate e raclette, dalla consistenza omogenea e dall’irresistibile odore di muffa e formaggio. Una primizia a cui nessuna persona cresciuta in una vallata  alpina — e noi non facciamo certo eccezione — è in grado di resistere. E così, ne divoriamo avidamente una doppia porzione, mentre ci appostiamo in disparte a osservare la Valascia che prende vita. Pochi metri più in là, quattro settantenni sono immersi in una discussione vivacissima sulle sorti della squadra, come teletrasportati da un barbiere della zona. Con la regular season ormai finita, ci sarà un gironcino di playout all’italiana, al termine del quale le ultime due — quasi certamente Ambri e Friborgo — si sfideranno in una serie spareggio. Arrivare penultimi vorrebbe almeno dire poter giocare in casa la bella. Tre di loro propongono analisi e soluzioni per raggiungere la salvezza. Il quarto ascolta la conversazione con la testa inclinata, avvolto in un lunghissima giacca a vento nera; il logo dell’Ambrì intarsiato all’altezza del taschino. Un indumento chiaramente speciale, fuori commercio e in tiratura limitata, cui solo pochi eletti hanno potuto avere accesso. Forte di un evidente diritto di veto, cassa tutto quello che viene detto, gesticolando quanto basta. Bisogna fare la corsa sul Friborgo. Altre discussioni, più sul versante tecnico. Parte la provocazione. E comunque, in sto mortorio qui, meglio giocare in trasferta. Risate e bevute, fette di crostata e vin brulè. Poi, provati da una temperatura ormai sotto zero, si disperdono. Cristo, che frecc dice il più loquace. Non addormentarti gli fa eco un altro. Rimane solo il decano con la giacca a vento. Prende un bignè dal baracchino vicino e attacca bottone con un coetaneo, concentrato su un bianchino. Ti dico, bisogna fare la corsa sul Friborgo.

Altro lato della pista. Il freddo inizia a farsi sentire. Il parcheggio è dominato dai camion della TV Svizzera e da un altro baracchino che vende indesiderabili bibite fresche, tra cui l’imbevibile Rivella. Poi, in tempo reale, il silenzio viene rotto da una decina di giocatori del Losanna in felpa e calzoncini corti. Escono di corsa dalla Valascia e iniziano a giocare a torello tra le macchine parcheggiate, intenti a riscaldarsi per la partita. Si passano la palla con tecnica perfetta, incuranti del gelo e del ghiaccio, senza farla mai cadere. E senza colpire nessuna auto. Una dimostrazione di abilità resa ancora più notevole dal fatto che continuano a parlare e sghignazzare, mischiando francese, tedesco e inglese, senza confondersi. La Svizzera, in un fotogramma. Sullo sfondo, le montagne della Leventina si stagliano ancora contro il cielo, quasi a voler fare un ultimo saluto al fondovalle prima di scomparire alla vista. Incantati dallo spettacolo, staremmo in contemplazione per delle ore. Solo il gelo ci convince a tornare di là. Oltre al fatto che all’ingaggio d’inizio mancano solo 20 minuti.

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La Valascia ci riserva un’accoglienza ruspante, in linea con l’aspetto esterno. Seggiolini rustici, corridoi angusti, spazi ristretti, rifiniture minimali. Elementi visti e rivisti in qualsiasi palestra di college basket con un po’ di storia alle spalle. La differenza più eclatante, rispetto alle esperienze precedenti, è però la temperatura interna. Sostanzialmente identica a quella del parcheggio. Ci sistemiamo a metà tribuna. Protetti da un doppio pile, dalla felpa appena acquistata e da un provvidenziale paio di pantaloni da alpinismo, siamo perfettamente a nostro agio. Altrettanto non si può dire del padre, presentatosi con un abbigliamento decisamente inadeguato ai rigori della Leventina. Inizia a battere le gambe dal freddo quando le squadre non sono scese ancora in pista. Non sarebbe tornato ad avare una temperatura corporea normale fino al mattino dopo, svariate ore dopo il rientro a Sondrio. Per lui, un impatto con l’hockey svizzero drammatico.

Attorno a noi, spuntano come funghi coperte, colbacchi, piumini, trapunte. Alcune griffate Ambrì Piotta, altre più neutre. Era da un Cubs-Mets di fine maggio 2011, giocato sotto una combinazione di neve e freezing rain orizzontale che copriva persino la vista dello skyline di Chicago, che non vedevamo un tale sfoggio di vestiario termico a un evento sportivo. Mentre gli spalti si riempiono, la Gioventù Biancoblu, rappresentante del tifo organizzato dell’Ambrì, prova a riscaldare l’atmosfera, sfoderando cori di incitamento, insulti a Lugano, e un enorme bandierone di Che Guevara, probabilmente donato dal Bed and Breakfast pacifista di Altanca. C’è un clima interlocutorio, quasi di attesa. La stagione è stata troppo brutta per essere ottimisti. Ma la partita conta troppo poco per impanicarsi davvero. E così, nell’insieme, ne viene fuori un’atmosfera moderatamente allegra, senza preoccupazione. Lo devono pensare anche i tifosi del Losanna, che rispondono ai primi cori  dei locali con una raffica di fumogeni, che impestano l’aria di zolfo e fumo mentre le squadre scendono in pista.

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Difficile trovare uno sport in cui la differenza tra guardare una partita dal vivo e una in tv sia tanto abissale. Calcio, basket, baseball, football. Tutti più belli quando sei sul posto. Ma l’hockey si trasforma proprio. Un po’ perché — luogo comune in arrivo   il disco si vede senza problemi, al contrario della TV; e un po’ perché solo così si può apprezzare davvero l’intensità fisica e atletica di questa disciplina. Dove il contatto è pressoché continuo, il gioco si interrompe relativamente di rado, e la capacità di coordinazione dei giocatori rimane un mistero insondabile. Soprattuto se si considera che stanno sparando in giro un oggetto a oltre 100 km/h, muovendosi alla velocità della luce su un elemento in cui tre quarti degli esseri umani cadrebbero faccia a terra all’istante. Senza dimenticare lo spazio acustico, ricchissimo di elementi. C’è il suono dei giocatori che sbattono sulla balaustra, quello delle mazze che colpiscono il puck, quello dei pattini che grattano sl ghiaccio. Una novità, per chi è abituato a uno sfondo sonoro uniforme, dominato da palleggi e scarpe che cigolano. E così, con una conoscenza delle regole solo basilare, e senza nessuna competenza tattica, ci si perde nel ritmo dei ribaltamenti di fronte continui, che fanno passare il tempo senza nemmeno che ce ne si possa accorgere. Se le partite inutili sono così, figuriamoci quelle decisive.

Forte di una caratura tecnica nettamente superiore, il Losanna domina i primi dieci minuti, senza però trovare la porta. Sbandando, la difesa dell’Ambrì tiene in qualche modo. Si prosegue senza tregua, con la folla che si desta per qualche ingaggio particolarmente focoso, e per un paio di penalità consecutive che gli arbitri sanzionano ai padroni di casa. Ce ne accorgiamo giusto perché siamo proprio davanti alla gabbia dei “cattivi”, la zona di infamia dove i giocatori vengono rinchiusi per scontare le espulsioni temporanee, comunissime nell’hockey. Poi, verso la fine del primo tempo, arriva il gol dell’Ambrì, che dà una scossa a tutto l’ambiente. La Gioventù Biancoblu prova a spingere la squadra con cori che non sentivamo dal vivo dalle finali scudetto italiane di basket del 2006, nelle notti d’estate in cui Andrea Bargnani sembrava lanciato verso una carriera dominante, e tutto il mondo ci appariva più in armonia con sé stesso. Piomba sull’animo una nostalgia composta, mentre ci uniamo alla standing ovation che accompagna l’Ambrì al primo dei due intervalli. Ci risveglia la faccia bluastra del padre ci ricorda di vicende più terrene, spingendoci nei meandri della Valascia alla ricerca di una bevanda calda per rallentare i sintomi dell’assideramento. Altre 3500 persone, più o meno il totale dei presenti per la serata, hanno avuto la stessa idea. 

I corridoi dell’arena sono la versione subalpina dei caruggi di Genova. In un’aria spessa carica di fumo, gonfia di odori, gli stessi personaggi del piazzale commentano i primi venti minuti di gioco, formando focolai di conversazione che rendono la vita impossibile a chi vuole semplicemente guadagnare la porta del cesso. Tre distinte signore in pelliccia, esponenti della più fiorente borghesia montanara, fumano una sigaretta in disparte. “Oh, ci volevano i giovani” dice una. “Almeno corrono” risponde l’altra. Parlano di tre giocatori prelevati in settimana dai Ticino Rockets, la squadra satellite di serie B dove le squadre del Ticino fanno crescere i propri talenti. Nel disincanto di una stagione disastrosa, il disprezzo verso i mercenari stranieri è l’unica cosa a cui aggrapparsi. Facendoci strada negli spazi ristretti, rimediamo un punch gagliardissimo, a temperature da nucleo stellare, che minaccia di sciogliere il bicchierino che lo contiene. Vorremmo tornare in postazione prima che l’aria artica risucchi il calore, ma la strada per la tribuna è irta di ostacoli. In mezzo al corridoio, due personaggi avvistati un’ora prima attorno alla raclette tirano le somme. Uno è un rampante cinquantenne: mascella tonica, occhiali hipster, piumino lucente. Sostiene che il Losanna stia giocando a perdere. “Vogliono solo evitare il derby col Ginevra. Se volevano giocare, erano già sopra 3-0”. L’altro è un settantenne in giacca a vento, protetto fino agli occhi da una cuffia di lana ruvidissima. “Beh, almeno l’ultima non l’abbiamo persa secca”. Si riferisce alla trasferta di Kloten della sera prima, persa ai supplementari. Il che, nell’hockey, garantisce un punto in classifica anche agli sconfitti. “Ueeeh!” scoppia a ridere di scherno quello col piumino, facendo ballonzolare la mano con sarcasmo. “Un punto a Kloten. Tanta roba”. 

Potrebbero proseguire per un’altra ora, se la sirena, come le luci del teatro, non ricordasse a tutti che il secondo tempo sta per iniziare. In un istante, la folla è già in postazione, per altri 40’ di freddo e sofferenza. Il resto della partita avrebbe seguito il medesimo copione. Cori, applausi, lamenti per gli errori difensivi, rassegnazione. E bestemmioni a pioggia per arbitri ed avversari per ogni penalità non fischiata. Pure da personaggi apparentemente posati, che fino a quel momento non si erano mossi dal loro posto di tribuna nemmeno per un gesto di stizza. Alla fine, la spunta proprio l’Ambrì. Avanti anche 3-1, e poi in trincea per tutti gli ultimi 5 minuti dopo aver subito il gol del 2-3. Ma l’assalto del Losanna, forse viziato dal desiderio di evitare il Ginevra, avrebbe prodotto solo mischie e ingaggi, senza reali occasioni da gol. E così, nemmeno l’attacco finale senza portiere produce risultati, mentre la Valascia saluta una vittoria tanto inutile quanto liberatoria. E’ comunque motivo per cantare la Montanara, canto alpino nato tra i monti di Trento e il Monte Rosa, e adottato dalla Gioventù Biancoblu come inno post-partita per celebrare le vittorie. Rare, come sostengono beffardamente i tifosi del Lugano. Ma non abbastanza da non averne mai viste.

Downtown Ambrì, di nuovo. Questa volta è buio pesto, le montagne definitivamente sparite. Rallentato dal freddo e dalla birra, il corteo dei tifosi defluisce dal parcheggio. Qualcuno si stacca e si dirige verso Quinto, dall’altro lato dell’autostrada. Gli altri puntano dritti sulla stazione, dove un treno speciale è pronto ad aspettarli. Percorre il Ticino sino a Bellinzona, riportando tutti a casa. E’ gratis per gli abbonati, ovviamente tranne che per i derby col Lugano. Efficienza elvetica, dicevamo. Lasciata passare la folla, ci divincoliamo dall’ingorgo di macchine, immettendoci finalmente sulla A2. Tutti prendono la direzione sud, verso il resto del cantone; solo noi, orgogliosamente controcorrente, avanziamo a grandi falcate verso il tunnel del Gottardo, pronti a riabbracciare le nebbie dell’Altipiano. Dentro la galleria, la Radio è tornata a parlare. Con buona pace di Carmen Consoli e delle ceneri dei defunti, il palco è tutto per After Hockey, la trasmissione che segue le partite. Omar Gargantini, giornalista di RSI che si contraddistingue per l’eccellente ritmo nelle radiocronache e per un misterioso quanto viscerale tifo per l’Avellino Calcio, fa il punto della situazione. Tutta l’attenzione è invece per gli imminenti playoff del Lugano, che finisce settimo e becca al primo turno il favoritissimo Zurigo. Un punto in più, e ci sarebbe stato lo Zugo. Meno talento, più equilibrio, e trasferta più corta. Al commento tecnico partecipa anche un tifoso, scelto di volta in volta per affiancare il conduttore. Non ha un eloquio troppo fluente, ma se la cava egregiamente. La vittoria dell’Ambrì viene invece derubricata a successo simbolico. C’è però anche il tempo per un intervento di Filippo Lombardi, presidente della squadra, registrato a bordopista. Si scusa per la stagione, invita i tifosi a non mollare, promette un futuro migliore. Con senso pratico, Gargantini suggerisce invece di agire in termini più pratici. Ad esempio,  fare la corsa sul Friborgo.

Titoli di coda — Sono passati tre mesi dalla trasferta alla Valascia. Per chi freme dalla brama di colmare i vuoti di sceneggiatura ecco cosa è successo nel frattempo. Il Losanna, nonostante i tentativi di autosabotaggio, ha proprio beccato al primo turno il Ginevra, prendendole di santa ragione come l’Indiana di Paul George contro i Cavs di LeBron. La saggezza popolare ci aveva visto giusto, come (quasi) sempre. Il Lugano, con somma sorpresa, ha sbattuto fuori lo Zurigo con un perentorio 4-2, arrendendosi solo ai futuri (e passati) campioni del Berna. Lo Zugo, quello più morbido e con la trasferta breve, è invece arrivato in finale, dove avrebbe strappato ben due partite allo stesso Berna. Infine, l’Ambrì. La corsa sul Friborgo è fallita miseramente. Ultimo posto in classifica, fattore pista perso, e sonante sconfitta ai playout proprio contro il Friborgo stesso. Per fortuna loro, e pure nostra, prima della retrocessione c’è un’ultima prova d’appello, contro la vincente della serie inferiore. Contro un agguerrito ma tecnicamente modesto Langenthal, è arrivato il sospirato 4-0, che ha chiuso i conti e garantito un altro anno nella massima serie. Si riparte a ottobre. Proprio con un derby. Inutile dire che faremo di tutto per esserci. Come se fosse Duke-Carolina.

  

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God save Kenosha. Storie di trote, genio e cemento.

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Metà agosto. 4 del mattino. In un mese che è lavorativamente uguale agli altri, orari del genere sono l’unico modo per vedere Chicago senza traffico. Recupero Dom a un incrocio, poi via sull’autostrada, troppo stanchi per avere sonno. Ci sono tesi di dottorato da scrivere, spettri quotidiani che incombono. Ma il richiamo dell’acqua rimane un diritto inalienabile, specie in momenti come questi. Torniamo a pescare assieme dopo 5 anni. Ci eravamo conosciuti nella primavera del 2010 su un porticciolo del sud della città, intenti nel lanciare esche a caso in acque a noi sconosciute.  Per due immigrati affetti dalla stessa silenziosa malattia – io dalla Valtellina e lui dalle coste di Sydney –diventare amici fu istantaneo. Da lì, tante avventure nei porti della metropoli, a bordo di biciclette cariche di attrezzatura e autobus poco raccomandabili. Ogni tanto prendevamo anche qualche pesce. Poi lui, guida safari e fotografo professionista, si trasferì con la moglie in Tanzania.  E’ tornato la settimana scorsa per il matrimonio di un amico. E così, come se niente fosse, siamo in viaggio. Canne e mulinelli sparsi ovunque.

La meta

La meta

Siamo diretti a nord, nella terra di industrie e capannoni che separa Chicago da Milwaukee. Non ci accontentiamo di due bass cittadini all’ombra di Soldier Field. Vogliamo le trote, è nel nostro DNA. E in questa stagione, con l’acqua calda, l’unico modo per avere speranze è uscire dalla città, dirigersi a nord, battere i porti con l’acqua profonda. Alla ricerca di quelle correnti d’acqua fredda che, in un lago più grosso dell’Adriatico, portano i predatori vicino a riva anche in piena estate. La destinazione è Kenosha, sbrodolamento urbano di 100mila abitanti subito dopo il confine tra Illinois e Wisconsin, e al tempo stesso uno dei porti più pescosi della sponda occidentale di Lake Michigan. Il tipico buco che non è nè città nè campagna, col nome esotico che ricorda i nativi e tutt’attorno il purgatorio paesaggistico del Midwest.

Li chiamano “Flyover states”, gli stati sopra cui si vola. Un modo falsamente simpatico per dipingere l’irrilevanza di questi territori intermedi, in cui nessuno manda i corrispondenti illuminati, e di cui si nota l’esistenza solo quando si guarda giù dal finestrino durante i voli che collegano le due coste. Ma noi, uomini pratici, vogliamo i pesci, non i furgoni di hippy o gli spazi di co-working. E così, mentre fuori è ancora buio, ne ne sbattiamo di questi snobismi liberali, macinando con ansia i chilometri. Gone fishing avremmo appeso sulla porta dell’ufficio, se ne avessimo uno.

Trote. Il pesce della montagna. Pensi a boschi, torrenti, cime, cieli irreali. E polente che girano aspettando il ritorno a casa. Peccato che qui sia un po’ diverso. La pianura domina. E la natura è morta 200 anni fa, quando la legna dei boschi che furono venne spedita giù lungo il lago per costruire una città di dieci milioni di abitanti, più tutte quelle attorno. Rimangono campi, industrie, capannoni, qualche ettaro di foresta ripiantata, fiumi in afissia. E poi l’acqua infinita di questo lago, che ha subito ogni violenza ambientale possibile, eppure continua a conservare un suo strambo equilibrio. Di specie native ne rimangono poche: pesci persici, bass, rarissimi lavarelli, lucci sporadici.

Non il tipico rifugio di montagna

Non il tipico rifugio di montagna

Tutto il resto è frutto di intrusione, dalle prede ai predatori. Persino le trote non dovrebbero esserci. Hanno riempito la nicchia lasciata dai lucci e dai salmerini di lago, ormai ai confini dell’estinzione. Si sono adattate a cacciare lungo le scogliere i famigerati “goby”, i pescetti invasivi che hanno colonizzato tutti i fondali, a loro volta nutriti dalle invasive “conchiglie zebra”. Ne ingollano centinaia al giorno, crescendo a ritmi vertiginosi tra il cemento dei porti. Così facendo, diventano il sogno erotico dei pescatori. A cui della purezza della catena alimentare frega il giusto, quando ogni lancio presenta la speranza di sentire il mostro che abbocca all’altro capo della lenza.  Alaska o Wisconsin che sia.

5 e mezza di mattina. Inizia a fare chiaro quando arriviamo sul porto. Kenosha è un luogo dai contorni sociali selvaggi.  Lontano anni luce dai rifugi di montagna. A fianco a dove parcheggiamo una giovane coppia dorme in macchina. Hanno una pila di vestiti in una cesta sul sedile del guidatore, avanzi di cibo e caffè su quello a fianco. Roba sparsa ovunque. Gli schienali posteriori sono stati abbassati per creare spazio. Dormono abbracciati in un parcheggio pubblico, con il finestrino abbassato. Sembra cruda quotidianità, più che camporella. Poco più avanti, un poliziotto in bici chiede i documenti a un personaggio vestito di stracci, con lo sguardo spento. Lui esita, mostra il portafoglio ma non lo apre. Forse è un compito troppo arduo, in quel momento. Ma il poliziotto non ne vuole sapere. Clack. Ammanettato all’istante:  ostruzione alla giustizia. Davanti ai nostri occhi, prima che sorga il sole.  Fucking America dice a bassa voce Dom. Terra di contrasti, l’America[1] direbbe con aria affranta il corrispondente illuminato dalla poltrona di Washington. E io mi limiterei ad allargare le braccia, impotente, se non avessi una tonnellata di attrezzatura da pesca in mano che rischia di ruzzolare in acqua.

Lungo il molo c’è tanta biodiversità. Sulla terra, non nell’acqua. Due vecchi incalliti pescano appollaiati sulla ringhiera di metallo con cui si scende al bordo di pontile più vicino all’acqua. Vedendoci arrivare ci incenerisconono con lo sguardo. Messaggio recepito: non possiamo metterci a meno di cento metri di distanza. These people are like don’t touch my gun commenta Dom. “Tipica gente che non vuole che si tocchi la loro pistola”. Non è una battuta. O forse non lo è tanto come dovrebbe esserlo. Più avanti ci imbattiamo in un ispanico con baffetti che agita una strana canna da pesca d’altura, di quelle che si vedono nei video di pesca al tonno. Dom vorrebbe fermarsi e chiedergli che diavolo abbia intenzione di prendere con quella roba, ma la mia fretta di iniziare a pescare lo convince a seguirmi. Arriviamo in fondo. Sulla punta, un quarantenne con polpacci enormi pesca da una seggiola che si è portato a casa, contemplando la distesa immensa di Lake Michigan con aria riflessiva. Ha fare calmo, posato. Sull’imboccatura del porto, invece, un genitore diligente tenta la fortuna con la figlioletta di 6 anni. Che per motivi misteriosi, nonostante l’orario da chiodi, mostra più entusiasmo del padre, mentre tiene la sua cannetta in attesa dell’abboccata.

Tira un vento gelido. Il cielo è cupo, con le nuvole bassissime. E’ agosto, ma potrebbe essere novembre. Il padre è loquace. Parla con Dom e gli mostra le sue catture del giorno prima sul telefono. Holy shiiiit commenta Dom, esaltato. Ma oggi invece non si prende nulla, dice il padre, ferendo  il suo entusiasmo. Poco più in là, io ho appena iniziato. Tempo tre lanci, e il mio galleggiante si inabissa verso il fondo come se fosse trainato da un sottomarino. E’ il segnale di guerra. Lascio che il pesce si prenda un po’ di filo con se, dandogli il tempo di ingoiare l’esca. Poi, dopo qualche secondo, tiro deciso. Mi aspetto la lotta, sento già la sua forza bruta che tira verso l’abisso. E invece il tentativo va drasticamete a vuoto, uccidendo l’adrenalina. La trota si è portata via l’esca, il filo ritorna  indietro leggero come una piuma. Fuuuuck! commento. Mi hanno sentito in tutto il Midwest. Il padre mi lancia uno sguardo di rimprovero per il linguaggio scurrile. Poi si dimentica e viene opportunisticamente verso di me per vedere che esca stavo usando. Dom se la ride. Don’t worry, man. It’s coming! “Non preoccuparti, adesso arriva.” Sono le 6. Il sole in mezzo al lago fa capolino. L’aria continua a ferirci faccia e mani. C’e speranza.

E invece era l’occasione da sfruttare, che non sarebbe più tornata. Passano le ore e il lago sembra completamente privo di vita.  Dom parte in esplorazione del porto, dicendo di volersi scaldare. Dopo un’ora, torna trafelato. Da lontano gesticola, come se volesse andare da qualche parte. Forse si è rotto le palle e vuole tornare a Chicago. Ma sembra troppo entusiasta per nutrire un pensiero così cupo. Parla con frenesia.  That man’s rod is a fucking noodle. La canna di quell’uomo è uno spaghetto”.  Indica una sagoma lontana a metà del pontile di fronte. He got a beautiful brown. Wonderful fight. “Ha preso una splendida trota. Lotta stupenda”. “Quando?” chiedo io. Right now, man! Let’s go!

Mentre ci spostiamo, Dom sciorina l’analisi minuto per minuto della cattura. “Ha una canna minuscola, non ci posso credere che sia riuscito a tirare su quella bestia”. Gli chiedo se l’uomo ci sapeva fare, o se si trattava di un colpo di fortuna. “Pescava malissimo, infrangeva tutte le regole. Eppure, fidati di me. Chiaramente,  he knows what he’s doing”.  Gli arriviamo vicino. L’uomo è seduto sul cemento, con le gambe a penzoloni. ha un cappellino viola che sembra di una squadra di football del liceo locale. Reca invece la sigla di un ospedale religioso. Gli occhiali sembrano da vista, ma sono da sole. L’età è imprecisata. 60 anni, forse. I lineamenti orientali. Ma dopo sette anni in USA, si impara che i lineamenti non vogliono dire una sega.  Pesca con lo stesso spirito con cui gli umarell osservano i cantieri. Come se fosse lì per forza, trascinato dalla noia. E’ l’espressione di distacco da tutto, a partire da sè stesso, che lo rende magnetico.  Diverso da tutti gli altri. Dom lo saluta, di nuovo. Lui non ricambia. E’ assorto nella sua indifferenza.

Passa qualche minuto. Il vento è peggiorato,  rischia di trascinare via qualsiasi oggetto. Il tempo di pensarlo, e la bottiglia d’acqua sta scivolando via nella corrente. Detrito in più sulla lunga lista che vanta Lake Michigan. Con scetticismo, lancio la mia lenza. Dom, intanto, continua a tenere d’occhio l’uomo della cattura. Vuole che lo guardi anche io. Dice che secondo lui sta per arrivarne un’altra. Davanti a noi, spruzzi feroci indicano trote in caccia all’inseguimento dei branchi di pesce in superficie. Preso nel solipsismo che solo la vista di questi eventi può scatenare, non voglio saperne di interagire col mondo. Eppure,dì lì a poco, sarei stato costretto a farlo.

L’urlo di Dom trancia la noia. He’s on again. Holy shit! He’s on again. Annuncia un altro pesce. Ne ha presa un’altra. Dopo nemmeno venti minuti.  Il tempo di dirlo, e si sente il rumore continuo, inconfondibile, primordiale del mulinello che concede filo al pesce. Lo chiamano, con abitudine retorica, “il canto della frizione”. Per un pescatore è il rumore dell’orgasmo, lo stimolo che, dopo anni di condizionamento, si ossida al godimento. Pensate al rumore della retina su un tiro da tre, al tintinnio delle monete sui tuffi per Zio Paperone. Stessa roba. Eppure, per l’uomo dei misteri, sembra quasi un fastidio.

Kim in lotta

Kim in lotta

Ha la canna piegata sino all’impugnatura. Un fuscello in lotta contro un avversario chiaramente sproprozionato. Ma se ne sbatte. Tutt’intorno, invece, Kenosha prende vita. Dom urla, si agita. Due operai che stavano prendendo misurazioni abbandonano le bindelle. Si ferma anche un vecchio con la felpa dei Badgers, evidentemente non troppo ansioso di iniziare a pescare. Mi avvicino pure io, incuriosito. Pure un po’ incazzato. La lotta prosegue. Passano i minuti. L’attrezzatura, visibilmente troppo leggera, tiene. L’uomo dei misteri dà prova di grande maestria. Gestisce le fughe del pesce con calma olimpica. Limita i movimenti. Ha gesti morbidissime. Nelle mani di molti altri pescatori, quel pesce avrebbe già spaccato la lenza. He knows what he’s doing, e non di poco.  Poi, dopo minuti di combattimento, il pesce affiora. E’ una trota mostruosa. Grassa, potente, marrone. Con la mascella inconfondibile dei maschi, che per uno strano contrappasso, sono sempre apprezzati ai pescatori più delle femmine. Specie da quelli omofobi.  Grida di giubilo dal pubblico. Sguardi intrisi di eccitazione. Dom si autoelegge salvatore della patria e prende in mano il retino per recuperarla.  Gli operai con la tuta fosforescente sono in contemplazione. Solo il pescatore, impassibile, continua a seminare disprezzo sul resto del mondo. Quando il pesce atterra sul cemento, lo prende con noncuranza. Toglie l’amo, lo soppesa. 16 pounds dice. Tra i 7 e gli 8 kg.

la bestia sul cemento

la bestia sul cemento

Poi la ributta in acqua come se nulla fosse.  Era una trota da trofeo. Un pesce che molti pescatori nella vita si sognano. Roba da copertina patinata, foto sponsorizzata. Leggenda da vendere al barbiere. Ma non per lui. Sommerso dagli applausi, abbassa la testa. Sembra quasi contrito. Forse ha dei sentimenti. Dom lo sommerge di domande, ma lui fatica a rispondere. Il suo inglese è zoppicante. Difficile capire se sia più timido o scostante. Tra i mugugni capiamo che si chiama Kim. E’ coreano. Non vuole una foto in posa, per nessun motivo. Un minuto dopi, impacchetta la sua roba e si dirige verso le case della città. Will be back in an hour dice. L’unica frase completa di tutta la giornata. Non lo avremmo mai più rivisto.

Passano altre mezzore. Montiamo qualsiasi cosa troviamo nella cassetta degli attrezzi. Le trote a volte affiorano in mezzo al canale del porto. Rabbiose e affamate. Ma nessuna è interessata alle nostre esche. Alle tre del pomeriggio, grigliati dal vento, contempliamo la resa. White flaaag dice Dom, con la sua capacità di entusiasmarsi anche nella sconfitta. Incamminandoci verso la macchina incontriamo un altro pescatore. Baffi grigi, denti neri, occhialino da sole da ciclista. Settant’anni, o cinquanta portati malissimo. Lancia e recupera freneticamente. Ne ho presa una stamattina, mi ha spaccato tutto. Balla, non c’era. Ma è parte del gioco. Chiacchieriamo appassionatamente. Finisce ogni frase con yaaah. Sembra una caricatura, proprio come i personaggi di Fargo. Siamo in Upper Midwest, il Minnesota confina con il Wisconsin. Nessun accento accade per caso.  Poi gli raccontiamo quello che abbiamo visto. “Un coreano?” incalza lui. “Che pesca come una canna che sembra un noodle?” Confermiamo. “Si chiama Kim?”. Altra conferma. He’s the man! E così, veniamo a sapere che è il pescatore più famoso di Kenosha.  L’uomo che non parla con nessuno, e prende sempre qualcosa. “Ne prenderà 5 o 10 al giorno” dice. “E sapete la cosa bella? Yaah? He don’t give a shit. Yaaah!” Non gliene frega niente. Gli diciamo che lo abbiamo notato. Ultimi convenevoli. Poi ciascuno per la sua strada. Good luck! dice Dom. I need it! chiude lui. Classico dialogo tra pescatori erranti.

Via del ritorno. Molto materiale da elaborare. Per non addormentarci e finire fuori strada, io e Dom parliamo. Di pesci, ovviamente. E di personaggi come Kim. Geni che predicano sul cemento. Ogni porto del Wisconsin, ogni pontile di Chicago ne ha uno. Ma si trovano in tutto il mondo, dalla Valtellina alla Nuova Zelanda.  Man, Kim don’t care dice lui, ancora affascinato dall’impresa. “A Kim non gliene può fregar di meno”. Verrebbe da paragonarli alle stelle dei playground di New York, a quelle storie su grandi giocatori di basket che chissà che cosa sarebbero potuti diventare. Ma nella pesca il discorso non regge. Qualcuno ha vinto gare, si è riempito il cappello di sponsor, predica su youtube. Eppure i più sono rimasti sottotraccia, confinati nella fame locale, illuminando con i loro colpi di classe i luoghi dove operano. Persino quelli che nessuno vorrebbe conoscere.

P.s. Qui, il video della cattura. Grazie a Dom. E non solo per il video.

[1] Un saluto e un ringraziamento (cit.) a Stefano Olivari, se il suo amore per gli animali non gli impedisce di leggerci.

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Nell’Indiana che conta. Pensieri live dalla Final Four

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Premiazione di Duke

Pensieri e parole da Lebanon, 22 miglia a nord di Indianapolis. Siamo in una suite esclusiva dell’Econolodge, catena di alberghi di lusso che colonizzano le uscite autostradali di tutti gli Stati Uniti, pronte ad accogliere i relitti umani in balia dell’asfalto. Nessuno, in questo momento, rappresenta meglio la categoria. La finale è finita da qualche ora, One Shining Moment è una melodia che non riusciamo a scacciare. Avremmo voluto che fossero i Badgers a celebrarla, per una serie di motivi. Ma dopo una serata di basket di questo tipo, possiamo solo rendere grazie. Non ce la dimenticheremo facilmente.

LACRIME – Copioni triti e ritriti, eppure sempre efficaci. I vincitori esultano e sprecano sorrisi. Gli sconfitti si chiudono in un angolo, testa bassa e lacrime, di fronte all’inevitabile. Nel college basket, poi, è ancora più crudele. Al quarto anno sei fuori, non ci sono prove d’appello. Perso il treno, sai già che non ripasserà. Doveva pensarla più o meno così Frank Kaminsky, accasciato sul parquet mentre partivano coriandoli e ammenicoli vari. Sicuramente era del pensiero anche Sam Dekker.

Sam Dekker, inconsolabile sconfitto

Sam Dekker, inconsolabile sconfitto

La faccia pulita più pulita che possa esistere. Occhi gonfi, nessuna forza per rispondere a brillanti quesiti del tipo come ti senti in questo momento? a cui i compagni stavano venendo sottoposti con fare militaresco. Almeno questo non è un terremoto o un alluvione. Ha provato a tirarlo su di morale Jeff Goodman, l’insider di ESPN, quello con le fonti più feconde di tutto il panorama giornalistico collegiale. Ma anche a lui è andata male. L’addetto stampa di Wisconsin, terminato il tempo per le interviste, invita ad uscire. Qualcuno va da Dekker, lo saluta. E allora ci facciamo coraggio anche noi. Nulla di complicato, solo un thanks Sam, it’s been great. Ci guarda, tira una pacca sulle spalle, dice di apprezzare il pensiero. Non abbiamo virgolettati – e anche se li avessimo non cambierebbe nulla visto che in Italia la NCAA non la considera nessuno – ma almeno abbiamo la coscienza a posto. Quel ringraziamento, da parte nostra, era davvero sentito.

FATTORE K – Si è parlato, e si parlerà, delle prodezze di Tyus Jones e Grayson Allen. Dei guizzi di Okafor, dei balzi di Justise Winslow. Ma questa vittoria è anche, e soprattutto, la vittoria di Mike Krzyzewski. La quinta, con un gruppo ancora diverso. In passato c’erano veterani, più o meno talentuosi, alla guida di gruppi costruiti nel tempo. Da qualche anno, ha deciso anche lui di puntare sulle forze fresche. E’ andata male negli ultimi 2-3 anni, poi è arrivata la pesca giusta. Una stella – Okafor – con due giocatori solidissimi, che forse stella potranno diventarlo – Winslow e Jones. Ma dietro a tutto c’è sempre lui. Che magari non sapeva il nome di Papaloukas, e avrà quell’aria di condiscendenza che tutti i santoni americani sviluppano negli anni, ma sa insegnare basket come pochi altri sanno fare. E basket a tutti i livelli: attacco, difesa, personalità, atteggiamento. Questa non era solo una squadra di talenti che giocavano assieme. Era una squadra di basket vera, oliata davanti e dietro, capace di reagire alle difficoltà. E con il destino dalla propria parte, alleato irrinunciabile per arrivare a questi livelli. La lezione più sonora Calipari l’ha presa da lui, seppure a distanza.

INDIANAPOLIS – Difficile pensare a una città migliore per un evento di questo genere. Spoglia, essenziale, funzionale. Talmente vuota da prestarsi a essere conquistata da centinaia di migliaia di appassionati per un lungo weekend di Aprile: i 70mila entrati allo stadio, più tutti quelli rimasti fuori e arrivati solo per gli allenamenti. La nostra esperienza precedente, a livello di Final Four, era stata Houston, e la differenza si è fatta sentire. In Texas era tutto sfilacciato, con lo stadio fuori dal centro, i tifosi sparpagliati, i collegamenti inesistenti.

birre prepartita

birre prepartita

C’erano anche Butler e VCU, il che non aiutava certo l’atmosfera. Per le quattro vie di downtown Indianapolis, invece, tutto era a portata di mano. Al punto che – cosa rarissima per una città americana – sono stati i pedoni a farla da padrone, decidendo loro quando attraversare, quando rispettare i semafori, quando lasciar passare le macchine. La NCAA, che proprio qui ha la sede, ci ha messo del suo. Tre palchi fuori dal Lucas Oil Stadium, bancarelle a ogni angolo, e le classiche vie del centro ribattezzate con i nomi delle squadre. Consuetudine antica, come insegna il maestro Roberto Gotta, che però fa sempre sorridere. Al resto, ci ha pensato la città stessa, con i suoi capannoni riadattati a birrerie artigianali, i bar, le steakhouse, gli spiazzi post industriali a ridosso degli svincoli dell’autostrada.

I tifosi si impadroniscono di downtown

I tifosi si impadroniscono di downtown

Quelli che in una giornata di novembre sembrano il prologo dell’apocalisse, e che invece diventano il luogo di ritrovo ideale per arrostire maialini in attesa della partita. Dopo tutto, il tifoso di NCAA si accontenta di poco.

PICCIONAIA – Ha suscitato i soliti sorrisi la foto panoramica del Lucas Oil Stadium scattata dal nostro box stampa. Su Twitter l’abbiamo chiamata “ampie vedute”, e non ci si mette molto a capirne il motivo. Il campo, dal sesto anello di uno stadio di football, era minuscolo. I giocatori si distinguevano a malapena.

ampie vedute

ampie vedute

E il sesto senso per giudicare intuitivamente una chiamata arbitrale – a torto o a ragione – veniva completamente a mancare, togliendo metà del divertimento (scherziamo, ma non troppo. Siamo pur sempre italiani, e pur ex arbitri). La domanda, ovviamente, è: vale la pena tutto questo per vedere una partita in quelle condizioni? Non era meglio vederla in tv? Varie risposte sono possibili. In primis, l’eccellente birra IPA di Tow Yard, uno di quei capannoni che popolano il deserto urbano a pochi metri dallo stadio, non sarebbe stata altrettanto buona se sorseggiata per via telematica. Secondo, la partita si vedeva. Malino, ma si vedeva. E quell’angolo così inusuale, per quanto poco funzionale alla pallacanestro aveva il suo perchè. Soprattutto se, dietro alla lastra di vetro che isola il box, ci sono altri cento giornalisti immersi nello stesso acquario, anche loro alle prese con il fascino del panorama. E così, lassù, si è creato un ambiente intimo, separato e al tempo stesso connesso al resto dello stadio. La partita era accompagnata dalla radiocronaca, secondo una combinazione assolutamente unica. I rumori arrivavano di sbieco. E il brivido della dimensione ultraterrena contribuiva a rendere l’esperienza ancora più unica. Insomma: preferiamo il bordocampo, oppure il terzo anello di una normale arena di basket. Ma se la Final Four deve essere un evento monumentale, dove il colpo d’occhio all’inno nazionale vale più della qualità di fruizione del resto della partita, accettiamo di buon grado pure questo. Rimaniamo dell’idea che il basket non sia uno sport da giocare in posti del genere. Ma per un fine settimana all’anno, l’eccezione è ben accetta.

RITI & MITI 1– E’ stata anche una settimana di luoghi comuni, sentenze, encicliche. Come di costume quando una manifestazione importante arriva all’ultimo atto, schizzando improvvisamente in cima all’agenda di chi, per mesi, aveva altre cose da seguire.  Popolare l’argomento secondo cui il college basket sarebbe in caduta libera. Si lamenta perdita di contenuti tecnici, impoverimento della tattica, rallentamento eccessivo dei ritmi. Tutto molto bello, come direbbe una voce a noi tutti nota, se non fosse che noi, nel nostro innato buonismo, abbiamo visto un torneo NCAA ricco di spunti e stili diversi, con partite tutt’altro che scadenti. Sarà stata la mancanza di una squadra di miracolati (politicamente scorretto per l’abusato Cinderella), sarà che dalle Sweet 16 in poi ogni squadra aveva punti di forza tutti suoi, garantendo varietà ancora prima che spettacolo. Insomma, la pallacanestro è stata ampiamente decente, con i picchi toccati dall’attacco dei Badgers e dalla difesa di Duke nelle semifinali di sabato. E pure gesti atletici non indifferenti, anche da parte di quei  bianchi che, in linea con lo stereotipo, avrebbero dovuto solo tirare e provare a picchiare un po’. Spiegatelo a Grayson Allen, per esempio.

RITI & MITI 2 – Altra tesi diffusa, peraltro magistralmente smontata da Mark Titus su Grantland, è l’idea che il college basketball sia stato rovinato dagli one-and-done, i liceali parcheggiati per un anno in attesa di saltare in NBA. Un’argomentazione che, per certe pieghe capziose, ricorda un po’ il #TroppiStranieri cavalcato ultimamente da certi esponenti del basket italiano. Primo, nessuno obbliga i coach di college a frequentare circuiti AAU e allenamenti del McDonald’s All American per accaparrarsi i talentini a cinque stelle. E infatti, pochissimi lo fanno, continuando ad allenare e a selezionare gli atleti con gli stessi criteri usati un decennio fa. Secondo, è tutto da capire come il transito al college di giocatori che con altre regole non ci sarebbero mai venuti possa essere nocivo alla qualità della pallacanestro collegiale. Se proprio, gli one-and-done hanno alzato il livello, portando picchi di talento e atletismo che hanno elevato il tasso di competitività. E’ una regola ipocrita? Forse. Fomenta la mercificazione dei giocatori, portando le università ancora più lontane dal loro obiettivo educativo? Probabile. Attenta all’identità secolare di certi atenei? Ma mettiamo pure di sì. Rimane il fatto che, anche senza queste meteore sparate verso una vita miliardaria, le contraddizioni della NCAA rimangono. E i tifosi, quando la squadra vince, all’arena ci vanno lo stesso, a prescindere da quanti freshmen ci siano nella loro squadra. Un po’ come fecero a Cantù con il mitico sestetto di ammerigani mercenari del 2001-02, quando la minaccia alle radici della  storia cestistica brianzola passò in secondo piano rispetto a una squadra che passò dalla lotta salvezza a quella per lo scudetto. Misteri, davvero.

TRASPORTI    – Martedì mattina, il circo se ne va. Un breve passaggio in centro a raccattare gli amici Claudio e Niccolò, improvvisati e graditissimi compagni di viaggio per il rientro a Chicago. Piove, la gente è sparita, l’umidità raggiunge livelli cambogiani. Indianapolis è tornata nel suo tedio, il Lucas Oil Stadium è più silente di una tomba. Pausa rapida davanti a una bancarella in fase di smobilitazione, con tanto di parcheggio agile in doppia fila. Stanno svendendo tutto, 5 dollari prezzo fisso. I tifosi rimasti in città acquistano come se non ci fosse un domani, lanciandosi come avvoltoi sulle poche t-shirt rimaste. Vediamo gente allontanarsi con un cargo di magliette in doppia cifra, impossibili da tenere sottobraccio. Anziani in crisi d’astinenza da college riempiono il baule della propria macchina

Assalto alle cose.

Assalto alle cose.

E’ un misto di shopping compulsivo e sciacallaggio, per gli acquirenti e per i venditori. L’ultimo residuo di vita di un evento ormai defunto. E così, malinconici e meditabondi, ci lanciamo a tutta velocità verso la Interstate 65, che collega Indianapolis a Chicago. L’abbiamo fatta 4 volte in 3 giorni, per motivi di forza maggiore, e ormai è come se la conoscessimo a memoria. Ebbene sì, si sbaglia di grosso chi sostiene che solo sulle strade secondarie si possano vedere cose interessanti. Certo, le blue highways (consiglio di lettura: http://www.amazon.com/Blue-Highways-Journey-into-America/dp/0316353299) hanno il loro fascino, ma i serpentoni a corsie multiple sono in grado di regalare soddisfazioni altrettanto corpose. Questo pezzo, in particolare, ha un fascino che a volte sconfina nell’orrido, come spesso accade per le campagne americane. Sono 150 km di rettilineo atroce, disperso in mezzo a pianure inframmezzate da qualche pala eolica. L’asfalto è sconnesso. La guida è uno slalom tra residui di copertoni e nutrie morte sul ciglio della strada. Mentre un’occhiata ai camion lanciati sulla corsia di sorpasso è il modo migliore per accorgersi dell’inarrivabile follia che, tra pregi e difetti, tiene in vita questo paese.

Tronchi a 130 km all'ora. Grazie Nik per la foto!

Tronchi a 130 km all’ora sulla I-65. Grazie Nik per la foto!

Passiamo un camion che perde tronchi a ogni metro, poi un autotreno gigantesco con l’erba finta sui gradini della cabina. Passano trasporti eccezionali, trasporti enormi, trasporti e basta. Ciascuno lanciato a tutta velocità verso la propria meta. Solo dopo un paio d’ore ci sentiamo nuovamente a casa. Ci vogliono i cartelloni pubblicitari dei fuochi d’artificio, primizia industriale del confine tra Illinois e Indiana, e il leggendario annuncio “Jesus is real” (con “Hell is real”, sul retro), in prossimità dello svincolo, per ricordarci che l’arrivo a casa è ormai prossimo.  Nessuna gita fuori porta a Indianapolis sarebbe la stessa senza visioni di tal fatta.

Ebbene sì, finita anche questa. Per il college basket, arrivederci a Novembre. Intanto, per chi ha seguito, letto, twittato, commentato, con gli occhi gonfi di sonno: un grazie enorme. Come quello da tributare ai Badgers.

 

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Ricordando la Jimmer mania

Pronti, via, si parte. Un altro torneo NCAA alle porte. Altre tre settimane di finali in volata e lacrime, ribaltoni e retorica. Per questa volta, però, ci guardiamo bene dal rifilare grandi guide e dettagliati pronostici: avendo visto sì e no 10 partite in tutto l’anno, sarebbe disonesto pontificare. E nemmeno vogliamo scrivere il pistolotto sui motivi per cui vale buttare un’occhiata distratta a questo evento. L’abbiamo già fatto l’anno scorso, non avremmo nulla di nuovo da dire (ma continuiamo a credere fermamente a tutte quelle cose, per la cronaca).

E allora, siccome non riusciamo proprio a stare zitti, diamo spazio ai ricordi. Forse di dubbio interesse, sicuramente non attuali. Ma se Marzo ci piace così tanto, è anche perchè abbiamo avuto lo sfacciato privilegio di vivere un po’ dei suoi momenti sulla nostra pelle. A partire dal pomeriggio in cui una delle storie più incredibili della storia del college basket toccò il culmine, salvo concludersi per sempre dopo pochi istanti. Eravamo a New Orleans, sulle rive del Mississippi.

Jimmer Fredette con la maglia di Brigham Young. Una leggenda del college basket.

Jimmer Fredette con la maglia di Brigham Young. Una leggenda del college basket.

Laddove finì, con dramma, adeguato alla statura del personaggio l’incredibile cavalcata di Jimmer Fredette.

Fu una trasferta di paradossi e ferrovie. A partire dal clima. Partenza serale dalla Union Station di Chicago, congelati dal vento. C’erano ancora ghiaccio e neve, rimasugli di un inverno estremo anche per i canoni del Midwest. Risveglio nel cuore del Tennessee, circondati da un verde che non vedevamo da mesi. Ma fu nella pausa sigaretta (per il controllore, più che per i passeggeri) di Jackson, Mississippi, che ci accorgemmo di essere finiti dentro a un universo parallelo, apprezzando nel contempo la lentezza d’altri tempi della ferrovia americana. Appena scesi dal treno, in compagnia di un veterano dell’esercito conosciuto sulla carrozza panoramica, ci colpì una folata di aria ribollente, piena di odori. L’umidità era tale che si faceva fatica a respirare. Era il nostro primo incontro con il Sud, e fu indimenticabile. Venimmo rapidi dallo squallore, dalle baracche, dai personaggi in canottiera seduti sulle scale ad ammazzare il tempo. O forse lo stereotipo dominante ce li fece percepire così. Di sicuro, furono istantanee che restarono. Pochi anni dopo, guardando le scende magistrali di True Detective (Miky Pettene, se per caso leggi, grazie!), sarebbero tornate tutte in mente

Dopo altre miglia di sferragliamento tra paludi e palafitte, arrivammo a New Orleans nel primo pomeriggio, 19 ore dopo la partenza. C’erano 29 gradi, non sudare era impossibile. Un macchinista della stazione si disse che sì, in effetti era un po’ troppo per marzo, anche da quelle parti. Eppure, nonostante il copioso materiale da esplorare, ci fiondammo subito dentro alla New Orleans Arena.

La New Orleans Arena

La New Orleans Arena

Il giorno dopo si giocava, e non sarebbe stata una partita qualunque. Il sabato prima, Jimmer Fredette aveva affossato a suon di triple Gonzaga, trascinando la sua Brigham Young alla qualificazione per la Sweet 16. E così, il fenomeno di culto dell’anno – e forse il pezzo di storia recente più saliente di tutto il college basket –  sarebbe passato dalla Louisiana. Davanti a noi. Per 40 miniuti. Il French Quarter e il tuffo nella cultura Cajun potevano tranquillamente attendere.

Difficile descrivere cosa fosse Jimmer, soprattutto in quei giorni. C’era il campo, certo. Una macchina da canestri. Una guardia dai tempi e dalla tecnica tutte sue, capace di segnare 40 punti in faccia a chiunque.  E poi c’era tutto il resto. L’idolatria. La simpatia incondizionata. La narrativa della fede mormone. E la dimensione pop, sublimata dalla canzone Teach me how to Jimmer dedicatagli dal fratello e da un’improbabile banda hip-hop. In poche parole, la fetta di popolazione americana che segue la NCAA – bianca, e senza troppa rabbia in corpo – aveva trovato l’idolo perfetto: un uomo pallido di 1.80 scarso, sorridente, religioso, e capace di fare con la palla cose mai viste prima. jimmer 5Sociologia un tanto al chilo a parte, non potevamo sperare di meglio. Anche perchè un giocatore con quel fisico, capace di segnare 30 punti a partita e disporre a piacimento delle difese era davvero merce rara, anche nell’orizzonte variegato del college basket.

Il risultato? New Orleans era invasa. Dallo Utah scesero oltre 3mila persone, più tutte quelle che rimasero fuori dalla partita Genitori, bambini, passeggini, nonne, famiglie sorridenti. Un’orda di bianchi morigerati e nemici delle tentazioni – dal bere caffè al tenere la barba – vagava  con allegria per i vicoli più lussuriosi, alcolici e goderecci degli Stati Uniti. Anzi, forse gli unici vicoli che esistono in tutta la nazione, eccezion fatta per un paio di angoli storici di Boston. E così – tra vodoo e collane, promesse di curve e sensazioni forti, whiskey e panini con il gambero fritto, oltre che le tigri di Louisiana State a cui i locali danno del tu  – la città era in mano ai più improbabili dei padroni. Un classico del formato del torneo NCAA, dove le destinazioni sono decise anni prima, ma le squadre solo a quattro giorni dall’inizio delle partite. jimmer 6E così, il culto di Jimmer era la narrativa dominante, la trama che teneva insieme tutti i cocci.

La partita era nel tardo pomeriggio. Brigham Young contro Florida. O meglio, Jimmer contro una delle squadre più esperte, fisiche e sottovalutate del torneo. Soprattutto se si considera che Brigham Young giocava senza Brandon Davies – visto recentemente negli opinabili Sixers in fase di ricostruzione spinta – il suo secondo miglior giocatore. Era stato sospeso dalla squadra per aver violato il codice a cui tutti gli studenti dell’università sono sottoposti all’accettazione della borsa di studio. Il crimine, nei fatti, era poca roba: un rapporto sessuale pre-matrimoniale con la fidanzata. Peccato veniale per alcuni, per la maggior parte non-peccato e basta. Ma rules are rules, e tanto era bastato. Fuori squadra, con la tortura aggiunta di dover seguire i compagni in tutti gli spostamenti, guardando le partite dalla panchina. Espiare il peccato, si direbbe. Eppure, c’era davvero la credenza diffusa che Jimmer, da solo, potese portare i suoi fino alla Final Four. Era un giocatore onnipotente, inarrestabile, chiaramente speciale. Vederlo senza il suo scudiero era, paradossalmente, quasi meglio. Avrebbe dovuto tirare fuori trucchi nuovi, magie inedite. Non si aspettava altro.

Dentro l’arena, i mormoni erano in schiacciante maggioranza, numerica e acustica, nonostante sulla carta fosse Florida a giocare “in casa”. E gli astenuti – appassionati neutrali o tifosi delle altre due squadre presenti (Wisconsin e Butler) – erano schierati senza pudore. Mentre documentavamo nei dettagli la scena, ci imbattemmo negli amici di Teach me How to Jimmer, quelli del rap.

i cantori di Jimmer, piu un intruso invadente

i cantori di Jimmer, piu un intruso invadente

Quando ci spacciammo come international media – che a livello di college viene spesso visto con un misto di meraviglia e timore reverenziale –  spuntammo una foto, e pure una maglietta small, in cambio di contirubire a diffondere il verbo. Carichi a molla, andammo in postazione. Il tocco finale era stata una scorpacciata di po’boy sandwich fatta poche ore prima. Non sapendo se i gamberi fritti reintrassero o meno negli alimenti banditi dai cultori di Jimmer, avevamo fatto adeguata scorta.

Palla a due. Si parte. Siamo seduti a tre metri dal campo, appena dietro la panchina di Brigham Young. Visuale perfetta, dolby surround naturale incluso. E curva mormone appena alla nostra destra, in modalità incitamento costante. Se davvero doveva essere l’ultimo capitolo della sua carriera, ne avremmo osservato ogni secondo. Florida parte bene. E’ più fisica, più pronta. Sotto ha Vernon Macklin e Alex Tyus, lunghi di spessore e atletismo. Fuori il gioco è in mano al playmakerino Erving Walker. Non lucidissimo, ma con punti nelle mani. E poi, in ala piccola, c’è il biondo Chandler Parsons. Faccia da bravo ragazzo, niente cresta, e una versatilità che stava già attirando l’attenzione di diversi scout NBA, considerando che il ragazzo era all’ultimo anno. Dall’altra, invece, il vuoto. Al di là di Fredette, unico giocatore di nota era Kyle Collinsworth.

jimmer 2Ai tempi era un freshman, poi partì per la canonica missione di due anni, ritornando solo la scorsa stagione. Ma c’era la netta sensazione che gli altri quattro del quintetto fossero un rimpitivo, un necessario ossequio al regolamento.

La differenza fisica tra le due squadre è evidente. Florida si appoggia sotto, prova a controllare il ritmo. Brigham Young, come da copione, non difende e tira dopo 10 secondi di azione.  Jimmer sente la pressione. Il tiro da fuori non ne vuol sapere di entrare, e l’unico modo per smuovere il tabellino è avventurarsi in entrata. Cosa che, peraltro, gli riesce bene, seppur a modo suo. Il marchio di fabbrica sono degli strampalati terzi tempi/eurostep chiusi con scucchiaiate fuori tempo, preferibilmente di mano mancina. Ogni tanto sfodera anche dei passi d’incrocio in venti centimetri quadrati, che fanno saltare i difensori come tappi. Sono quei movimenti che non hanno logica, nè tecnica nè fisica, eppure funzionano. E così, in una partita quantomai gradevole e frizzante, si va avanti su questi binari fino a metà della ripresa.

Siamo agli ultimi cinque minuti. Jimmer c’è, anche se sbaglia molto. Ha un cerotto sul mento, e un polpaccio indurito. Da fuori non entra, ma il suo genio è operativo. Il profumo di gran finale si concretizza poco a poco. Florida non l’ha chiusa, pur giocando meglio. Brigham Young, contenta per essere ancora viva, prende fiducia. Fredette ha una sfuriata. Segna un paio di canestri di azione, incita la folla. E, miracolosamente, la difesa dei Cougars inizia a funzionare. E’ qui che, improvvisamente, l’impresa si sente nell’aria. BYU torna a un tiro di dustanza. Palla rubata da Jimmer, con arresto e sottomano ad alta parabola in contropiede, 60-63. E poi, ecco il momento che tutti aspettavano. Il culmine della storia, il fotogramma che potrebbe essere ricordato per sempre. Quello per cui noi avevamo fatto 19 ore di treno, e chissà quanto altri avrebbero voluto poterlo fare con noi.

Florida sbaglia in entrata. Rimbalzo Cougar, palla del potenziale pareggio. Ce l’ha Jimmer, ovviamente, che in questo momento copre tutti i ruoli possibili, più quelli impossibili. Trotterella verso la metacampo, vuole studiare la situazione. Scott Wilbekin, difensore delegato, decide di non pressarlo. Ha paura di farsi battere subito, o forse non è concentrato. La folla trattiene il respiro. Jimmer continua a trotterellare. Se uno non sapesse che i giochi offensivi di Brigham Young non esistono, sembrerebbe davvero che voglia chiamare uno schema. Giocarsela con calma. Ma per l’appunto no. Stiamo parlando della squadra più anarchica, e del giocatore più refrattario alla tattica che si sia mai visto nella storia recente del college basket. Qualcosa deve succedere.

Jimmer trotterella ancora. Siamo a nove metri dal canestro, Wilbekin è ancora lontano. Troppo lontano. C’è uno strano silenzio. Si aspettano tutti il colpo di scena. E il colpo di scena puntualmente arriva. Bum. Arresto e tiro. Da quei nove metri. Dal palleggio. Con il corpo che va leggermente in avanti. Quanto di più malconsigliato, sbagliato, controproducente, egoista un giocatore possa fare. La palla entra come entra su un banale tiro libero. La New Orleans Arena esplode. In tribuna stampa partono pacche e stropicciamenti di occhi. Florida chiama time-out, e per tutta la durata della sospensione la preoccupazione principale è capire se tutto questo fosse davvero successo. E’ stato lì, in quel momento, che si è capito che, comunque sarebbe finita, la storia era stata scritta. Un gesto di fiducia estrema nei propri mezzi, di strapotere tecnico difficilmente raggiungibile. Un colpo di genio, ignorante e sprezzante. Avevamo assistito a qualcosa di irripetibile.

stevens

c’era anche Brad Stevens. Ce ne siamo dimenticati…

Da lì in poi, sarebbe stata solo una rapida discesa verso la pedestre normalità. Stanco e mentalmente esausto, Jimmer prende due pessimi tiri sui possessi che decidono la partita. Pessimi come quello di cui sopra, intendiamoci, ma che purtroppo si infrangono sul ferro, differenza non da poco in questo sport. Si va al supplementare, i Cougars non ce la fanno più. Florida vince senza soffrire e si qualifica alla Elite Eight. La leggenda finisce nella maniera più prevedibile e logica possibile. Le nostre risorse mentali sono consumate allo sfinimento, al punto che quanto successo nell’altra semifinale, quella tra Butler e Wisconsin, è prigioniero di una nebbia solida. Persino la finale del Regional, in cui Butler vendicò Fredette infilzando Florida dopo un supplementare, deve passare in secondo piano. Nessun tuffo di Matt Howard, per quanto esaltante, potè arrivare anche solo vicino a quell’istantanea da brividi.

A quattro anni di distanza, quei momenti sembrano lontanissimi. Fredette continua a scaldare panchine in NBA. L’anno scorso, tra un allenamento e l’altro, lo beccammo per una breve intervista per presentare la March Madness ai tifosi italiani. Gli chiedemmo di quei tempi, di cosa portasse con sè ad anni di distanza. Sfornò la classica risposta da compitino, cordiale e gentile. Aveva un sorriso impostato, eppure a noi sembrava che gli brillassero gli occhi. Che fosse piccolo, grassottello e lento lo dicevano anche ai tempi, ma noi, alla sua carriera da professionista, ci avevamo creduto lo stesso.  E invece, per ora, si è arenato.  Chi ai tempi era scettico rinfaccia le sue ragioni. La storia del piccolo, bianco, e per questo piace a tutti è un argomento più valido che mai, soprattutto ora. E quelli che ai tempi ci avevano visto lungo, che non erano saltati sul carro dei vincitori, giustamente si compiacciono della loro competenza. Eppure noi, per quanto possa contare, quel treno verso sud lo riprenderemmo subito.

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Olbia, Spokane, Santa Clara. E il basket che ci piace

IMG_1896Mesi di silenzio, senza che il mondo abbia smesso di girare. Ma l’aria di Marzo, più forte della retorica, ci ha risvegliato bruscamente. E così, mentre prende forma il tabellone, siamo andati a rispolverare una densa giornata, vissuta poco più di un mese fa. Poche ore ai confini della Bay Area, sufficienti per un tuffo nell’affascinante mondo di Gonzaga University e nel college basketball più duro e puro.

5 febbraio 2015

Arriviamo a San Francisco nel primo pomeriggio, accolti da una brezza beffarda. Nuvole, 15 gradi, vento moderato. Una combinazione tropicale, dopo che il giorno prima, nell’accogliente Chicago di inizio febbraio, ci erano voluti 35 minuti per grattare via ghiaccio e neve dalla macchina. Insomma, di nuovo in viaggio, come ai vecchi tempi. Motivazione ufficiale, l’ennesimo convegno di linguistica che cambierà la scienza, oltre che le nostre prospettive professionali. Motivazione sincera, una preghierina sull’altare del basket ci emoziona davvero. Soprattutto dopo dieci mesi di astinenza più o meno forzata. E allora college basket sia, sulla via di un’intrigante Santa Clara-Gonzaga con tantissima carne a fuoco. Anche solo per essere le università che hanno svezzato Steve Nash e John Stockton, i due playmaker migliori degli ultimi 30 anni di storia cestistica.

L’inizio della spedizione non è dei più facili. Dobbiamo dirigerci verso la Silicon Valley, peraltro già teatro della nostra vita per tre lunghissimi mesi (ne parleremo, prima o poi!). Peccato che nell’ecologica e salutista Bay Area raggiungere la terra delle startup con i mezzi pubblici sia un percorso a ostacoli senza esclusione di colpi. Prima prova: arrivare alla stazione del treno dall’aeroporto. Servono due trasferimenti sulla metropolitana, il BART che si vede nei film. Uno per salire, uno per prendere un’altra linea che ti riporta giù, lasciandoti finalmente alla stazione. Tempo totale: minuti 27, dollari 4.75, km 11 di ferrovia per 900 metri in linea d’aria. Seconda prova: aspettare pazientemente l’ineffabile Caltrain che collega – si fa per dire – la Silicon Valley al resto della baia. Del resto, chi lavora a Google gira con gli autobus aziendali con il wi-fi a banda larga. Chi ha gli immobili guida una Mercedes, probabilmente ibrida.

E così, per l’uomo della strada e gli studenti di Stanford che si avventurano nel pendolarismo, l’unica soluzione rimane questo pachidermico convoglio a gasolio, rumoroso, inquinante, con più di biciclette che passeggeri a bordo (qualcuno le dimentica pure a bordo, a volte). Arriva con 10 minuti di ritardo, avvolto in una nuvola nera che sembra uscita da un quadro sulla rivoluzione industriale del Settecento. Per le 4 del pomeriggio sbarcheremo finalmente a Santa Clara. 2 ore e mezza per 50 km scarsi. Sembrava il treno stesso, un mito di progresso.

Nella lobby del Marriott, altri 10 km dalla stazione, Riccardo (Rick) Fois ci accoglie con immeritato calore. Da Olbia alla West Coast, la sua traiettoria è un’accozzaglia di mondi ed esperienze, partita con un improbabile scudetto Allievi vinto in squadra assieme a Gigi Datome. Poi le Nazionali giovanili, un anno di liceo in Alabama, il college a Pepperdine University – poco fuori Los Angeles –, una parentesi come giocatore professionista in Italia, il rientro a Pepperdine come assistente/studente nello staff tecnico, assieme a un Master in Business Administration. E ora Spokane, stato di Washington e sede del campus di Gonzaga. Aiuta lo staff, assiste nel reclutamento. Ma è solo l’ultima fermata di una strada ancora lunga. “La cosa bella di Spokane è che non c’è niente da fare. I giocatori si allenano il doppio per ammazzare la noia” ci racconta. Non si siamo mai visti, ma gli argomenti non mancano. Da buoni emigranti senza troppa nostalgia, parliamo di Sardegna e Stati Uniti, di torneo NCAA e di aspirazioni di carriera. Vuole allenare, ci arriverà. Intanto, si gode una gavetta che potrebbe esere ben peggiore. Ci salutiamo dopo una lunga chiacchierata. La partita si avvicina, il basket giocato chiama. E così, ciascuno per la propria strada, ci dirigiamo verso il Leavey Center, nel centro del campus di Santa Clara University.

L’ambiente dentro la palestra è classico. Ma di un classico che non annoia mai. Alle 19.15, quasi un’ora prima della palla a due, un lato degli spalti è già stracolmo. Gonzaga è la numero 2 della graduatoria nazionale, ha perso solo una partita, ha fama e storia. Per le squadre di una conference di medio livello, è l’avversario più difficile e stimolante. Il modo ideale per ricreare sulle tribune entusiasmi che non si vedevano dai tempi di Steve Nash. A pochi centimetri dal campo, una fila di studenti a torso nudo canta e salta. Dietro, personaggi con occhiali di dubbio gusto reggono cartelli. Il rumore spacca già le orecchie. E’ un coacervo di chiasso, ignoranza, entusiasmo e pettorali, innaffiato da una buona dose di alcol. Gente di buona famiglia, certo, racially homogenous (bianca, in sostanza, con minoranza di origine asiatica) e senza troppe preoccupazioni dalla vita, visto che possono permettersi di passare quattro anni della loro vita in un campus a spese dei genitori. Eppure, non basta un labile rigurgito di coscienza di classe a farci passare l’ammirazione. Anzi, mentre osserviamo il tipo che agita forsennatamente il cartello Gonzaga is nada, ci sentiamo come un professore di liceo in camicia a quadri che canta la Locomotiva in coda al concerto. Nostalgici, malinconici, amareggiati per i tempi andati e le occasioni perdute. Ma in definitiva a nostro agio.

Gonzaga is nada

Gonzaga is nada

Ultras

Ultras

Folklore a parte, vedere college basket dal vivo ha un altro aspetto affascinante. Il minimalismo al potere: di turisti non ce ne sono, di strategie di marketing globale nemmeno, e la gente che è lì verrebbe alla partita anche se si giocasse in un garage con dentro due canestri. E allora, che si giochi in una palestraccia, nel Cameron, o in un Dome da 80mila posti, non ci sono distrazioni. Il focus è sulla partita, e nei tempi morti – che non mancano, tra 8 time-out televisivi e 5 ulteriori per ogni squadra –  si fanno due chiacchiere col vicino di posto o si sorseggia un po’ di coca-cola. La palestra di Santa Clara ne è la dimostrazione: studenti ammassati, panche vecchia maniera, corridoi per passare tra un settore e l’altro larghi mezzo metro. Non ha il fascino storico di un’antica cattedrale, nè ovviamente il tocco moderno di un impianto rinnovato: ma è abbastanza per permettere a chiunque di respirare basket a pieni polmoni, aiutato in verità dal telone di Steve Nash che penzola brutalmente dal soffitto. Non proprio quello che succede in un’arena NBA, dove ogni angolo di spazio, ogni secondo disponibile lungo le 3 ore di partita è strategicamente occupato da un bombardamento ossessivo-compulsivo dello spettatore.

Colpo d'occhio

Colpo d’occhio

Dopo un giro a fare fotografie a bordocampo, ci dirigiamo verso un tavolaccio dove due studentesse di Santa Clara servono dal sorriso imbalsamato hot dog di dubbia freschezza. Stiamo quasi per rimpiangere gli autogrill costruiti tra un settore e l’altro dello United Center, fino a che non ci accorgiamo dell’opzione super nachos. Una bacinella di patatine di tortilla cosparse di formaggio fuso, guacamole, fagioli, pomodoro e, perla inaspettata, frammenti di pollo alla griglia. Il tempo di pagare, prendere in mano il cartoccio fumante e sedersi nel nostro centimetro quadrato di tribuna stampa, con uno scout dei Knicks alla destra e uno dei Kings alla sinistra a farci generosamente spazio. Sotto di noi, la panchina di Gonzaga. Pochi metri più sotto, il figlio di Arvydas Sabonis che fa riscaldamento sotto l’incitamento di un centinaio di genitori e tifosi occorsi in trasferta da Spokane. E così, lontano da maxischermi e culti della personalità, da presentazioni roboanti e “Rose torna o non torna?”, la voglia di basket emerge più forte che mai.

Super nachos. Non quelli di Santa Clara, perchè erano troppo gustosi per essere fotografati. Fonte: http://thepioneerwoman.com/cooking/2013/05/loaded-nachos/

Super nachos. Non quelli di Santa Clara, perchè erano troppo gustosi per essere fotografati. Fonte: http://thepioneerwoman.com/cooking/2013/05/loaded-nachos/

Figuriamoci poi se la partita, con tutti i limiti tecnici del caso, è pure fantastica. Santa Clara, come tutti gli avversari degli Zags, ha deciso che deve fare la partita della vita. Spinti da pubblico e dall’assatanato Jared Brownridge, una guardia che percorre 10 vasche ad azione per smarcarsi salvo poi tirare qualsiasi cosa gli capiti in mano, i Broncos conducono le danze per tutto il primo tempo, in un chiasso che raramente abbiamo vissuto, pure in posti più illustri. Crolleranno, ma solo nella ripresa. Certo, il campo offre un’alternanza di prodezze e cappellate, di canestri rocamboleschi e tiri sbagliati da un metro. Ma l’intensità, il caos, la frenesia, la voglia di uccidersi su ogni palla è il collante che dà un senso alla trama, facendosi quasi apprezzare le centinaia di time-out come un’occasione per riprendere fiato. Interessante che proprio questi elementi di agonismo siano derubrucati gusto dell’orrido da quelli a cui il college basket proprio non piace. Punti di vista, preferenze personali. Eppure continuiamo a non capire perchè apprezzare la rumba di partite di questo genere sia incompatibile con il riconoscere – e per fortuna! – la straordinaria qualità della pallacanestro NBA. Spiazzati dal mistero, costreti all’insonnia, continuiamo nel dubbio a interessarci a entrambi i mondi, con la sola pretesa di avere una seconda porzione di quegli incredibili nachos.

Che poi, a fare proprio i pignoli, la qualità del basket espresso da Gonzaga non è proprio da buttare via. Anzi. E’ un discorso che trascende questa serata, che affonda le sue radici nello scorso millennio: da quasi vent’anni gli Zags, guidati in panchina dal pacato e misterioso coach Mark Few, continuano a mettere assieme squadre che fanno canestro, giocano assieme, esaltano l’uso dei fondamentali, e danno sempre l’impressione di saper cosa fare su un campo di basket. Almeno nella metacampo offensiva. “Il mio segreto? Guardare più partite di Eurolega che di high school” ci avrebbe poi detto Tommy Lloyd, assistente di Few. E’ l’uomo che è andato a Malaga a prendersi il giovane Sabonis, e chiede al suo staff di segnarsi ogni gioco interessante che vedono in una partita, si qualsiasi categoria essa sia. I risultati si vedono. Guidati da Kevin Pangos, un play canadese con fisico da uomo d’ufficio e bulbo fluente che andava di moda in C2 Lombarda negli anni 2000, gli Zags chiudono la partita con un superbo 70% dal campo, frutto di scelte equilibrate tra perimetro e post basso. Ci sono anche troppe palle perse e la netta superiorità sull’avversario, ma faziosamente facciamo finta di niente. Preferiamo concentrarci sui massimi sistemi e pensare che vent’anni di grande basket non possono essere un caso, soprattutto in un mondo dove nessun giocatore può restare per più di quattro. Vuol dire che le squadre sono state assemblate, prima ancora che allenate e forgiate, con dei criteri precisi. E che a tenere alta la qualità non è il talento di uno o due giocatori, ma una filosofia di gioco che si concretizza ogni anno con dei nuovi atleti. Parole sentite e strasentite, proclamate da qualsiasi allenatore NCAA. Eppure, a volte, succede veramente.

Il piccolo Sabonis

Il piccolo Sabonis

Fine della partita. In compagnia di altri tre reporter, aspettiamo coach Mark Few fuori dallo spogliatoio. Pur da numero 2 della nazione, il seguito mediatico è quello che è, almeno in trasferta. “Non aspettarti chissà cosa. Tanto siete così in pochi che non vi si nota nemmeno” ci aveva detto scherzosamente l’addetto stampa degli  Zags. Esce il coach, ci parla senza fretta. Non ci sono muri sponsorizzati, non ci sono telecamere. Due telefoni, e un eroe che prende appunti su un taccuino di altri tempi. Chiacchieriamo di Sabonis, di Pangos, delle palle perse, del 70% dal campo. Per una volta, pure senza uscire dalle banalità, abbiamo l’impressione che ci sia una conversazione, più che una recitazione di frasi fatte. Poi si apre lo spogliatoio. Senza la necessità di difendersi dall’orda dei media, c’è un clima da post partita vero. Pacche, idiozie, asciugamani che volano, scherzi del quarto tipo. Chiediamo una raffica di cose al piccolo Sabonis, intimidito più che infastidito dalla nostra insistenza. Eppure ci risponde. A monosillabi, ma sembrano sinceri. Finita la doccia, la squadra si dilegua nel bus. Cena all’International House of Pancakes – catena pedestre di grandi abbuffate – poi tutti a dormire. Diciassettesima vittoria in fila, ma è una serata qualunque.

Pronti a partire. Rick Fois, terzo da sinistra, rappresenta l'Italia

Pronti a partire. Rick Fois, terzo da sinistra, rappresenta l’Italia

Ci concediamo un’ultima pausa, per salutare Rick. Due birre con lo staff. Si parla di tattica e cambi difensivi, mentre coach Few si trincera puritanamente dietro a una San Pellegrino. Ascolta, ogni tanto interrompe. Proprio come faceva con i giornalisti prima. Più che il capoallenatore, sembra un passante finito lì per caso. Poi, nel bel mezzo di una discussione, ci lascia in mano un piatto di alette di pollo, porge la mano e se ne va. Geniale noncuranza, la stessa che mostra in ogni time-out. La mostrerà pure oggi, 15 marzo, nel vivere l’ennesima Selection Sunday da vincente. C’è un’unica incognita, capire la testa di serie. E anche se arrivasse un’eliminazione precoce nel prossimo weekend, la stagione sarebbe comunque da incorniciare. First world problems, direbbero qui. Zeru tituli, risponderebbero con un ghigno i leader di opinione che ne masticano di sport. Peccato che nel college basket non funzionerà mai così. Ci piace anche per questo. Oltre che per i super nachos, ovviamente.

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L’altra faccia della Madness

Assembramento selvaggio attorno al bancone. Così i tifosi di Wisconsin hanno vissuto la beffarda semifinale contro Kentucky

Assembramento selvaggio attorno al bancone. Così i tifosi di Wisconsin hanno vissuto la beffarda semifinale contro Kentucky

Da intenditori sopraffini, o più semplicemente da portatori di evidenti fobie sociali, non siamo mai stati appassionati delle partite visionate in luoghi pubblici. O meglio: se dal vivo proprio è impossibile, tanto vale accendere la tele e guardarsela comodamente dal letto. Senza caciara, spifferi di freddo, fauna attorno. E con il cuscino pronto ad arrivare in soccorso.

Sabato sera, però, era diverso. Non per chissà quale voglia di cambiare abitudini incrostate nei secoli, ma perchè ci sentivamo uno strano debito dentro. Qualcosa che andava saldato, almeno per finta. E così, lontani anni luce da Arlington e memori dalle emozioni regalateci dai Badgers di Wisconsin due settimane prima – in una serata in cui ci siamo ritrovati senza sapere bene come a cantare l’inno dell’università abbracciati ad altri 20mila tifosi sugli spalti del Bradley Center – abbiamo preso la grande decisione. Pomeriggio trascorso a downtown Chicago. Florida-Connecticut vista dal computer in uno Starbucks, dove la connessione ballerina ha perlomeno offuscato le oscenità fatte vedere dai Gators. E poi via verso Wills Northwood Inn, bar incastonato nel North Side di Chicago, da tutti considerato il miglior covo di tifosi dei Badgers della città. Uno sbattimento notevole, tra la lentissima Brown Line che passa in mezzo ai grattacieli e gli spostamenti a piedi. Wisconsin-Kentucky l’avremmo guardata da lì.

Siamo in compagnia, di quelle importanti. C’è la sorella in visita e c’è la significant other, che c’era anche sulle tribune del Bradley Center, e vuole vedere che fine faranno quei personaggi sghangherati con la maglia biancorossa. Entrambe sono state trascinate senza troppi complimenti in questa brutale immersione di March Madness. Scesi dalla metropolitana, ci vogliono cinque minuti a piedi, prima che il posto appaia in tutto il suo splendore, troneggiante in una via dove si vedono solo case residenziali. E’ un parallelepipedo illuminato di blu elettrico, con la mascotte Bucky sulla porta, un tasso gigante vestito di biancorosso, e bandiere di Wisconsin su ogni angolo. Si diffondono nell’aria vibrazioni grandiose. Non sembra molto pieno dice la sorella. Guarda quei pirla che guardano la partita dalla strada replichiamo noi, sorpesi nel vedere una decina di persone che fissano la tv attraverso i vetri del locale. Visibilmente esaltati, stiamo per entrare, quando proprio uno di quei pirla ci ferma. There’s a line. C’è la fila. I pirla, che ora sembrano molto meno tali, stanno aspettando il proprio turno per entrare. E siccome il locale è pieno all’inverosimile, dalla direzione hanno deciso che si entra solo quando qualcuno abbandona. Una politica che sa di beffa, mentre dalla palla a due sono già passati almeno cinque minuti.

Boccali di birra personalizzati

Boccali di birra personalizzati

Ma le cose potrebbero andare molto peggio. Il clima, per essere a Chicago, è generoso. Dal vetro, la partita si vede bene. E il casino che c’è all’interno è tale per cui a ogni rimbalzo difensivo si sentono le pareti tremare, anche se noi siamo in strada. Dopo pochi minuti Ben Brust imbuca una tripla, Wisconsin scappa a più otto. Il pirla in coda dopo di noi, impegnato a seguire la partita dal suo I-Phone, si lascia andare a un urlo. Dall’interno del locale, un tifoso Badger ci irride. Mette la sua giacca sul davanzale, ostruendo la visuale. Ma è uno scherzo, di quelli fini, che solo gli americani di ancestrali radici tedesche possono concepire. Dopo pochi secondi la toglie con un ghigno. Il tempo di vedere Juius Randle che prende un raro – si fa per dire – rimbalzo offensivo e banchetta in testa ai lunghi dei Badgers. Si va avanti così per svariati minuti, nella vana speranza che il tipo alla porta si distragga e ci faccia entrare. Ma l’Inn è più protetto di Fort Knox.

Ci vuole pazienza. Poi, improvvisamente, il nostro momento arriva. Penultimo media time out del primo tempo. Appena compare la pubblicità sullo schermo, una coppia, in evidente crisi coniugale – e neppure troppo sobria – lascia incautamente il locale. Via libera. Entriamo, senza nascondere l’emozione.

C’è un clima strano, di allegria mista a paura. Durante i possessi difensivi si canta defense  e si urla don’t foul. Ogni tanto, per non farsi mancare niente, piove qualche F-word all’indirizzo di Calipari, come sempre adorato da tutti gli appassionati di NCAA. Quando Kaminsky e Dakari Johnson si allacciano sotto il canestro, la folla si scalda. Partono mani a mimare grandi falli tecnici. L’inquadratura di Randle zoppicante lascia adito a qualche speranza. I liberi di Sam Dekker mantengono il vantaggio, prima che arrivi l’ennesimo timeout.

E allora, staccati gli occhi dalla partita, riusciamo anche a notare il resto. L’odore di birra è nauseabondo. Riesuma ricordi di frat parties, partite di beer pong, serate ignoranti. Tutta roba che noi, nella nostra impeccabile adolescenza seriosa, abbiamo visto solo in cartolina. Il pavimento è ricoperto da un tenace strato appiccicaticcio, frutto del deposito secolare di Miller Lite e polveri sottili. Ma anche l’occhio, in quel vortice di stimoli sensoriali, vuole la sua parte. Il locale è stipato. Alle pareti, tra uno schermo televisivo e l’altro, pendono animali imbalsamati di ogni tipo. Ci sono alci, cervi, lucci, pesci persici.

Interni di classe

Interni di classe

E ovviamente tassi, la mascotte dell’università, macabramente infilzati tra cartelli che inneggiano alla caccia e alla pace dei sensi. Il Midwest rurale emerge in tutta la sua commovente pacchianaggine. E noi, senza vergognarci a dirlo, si sentiamo davvero a casa.

Intervallo. Il tempo di raccogliere la giacca, e partire per un’esplorazione più attenta. La sorella sostiene che, nella sala accanto, ci siano voragini di spazio. E invece, dopo aver attraversato a fatica la nostra zona, ci troviamo schiacciati in un’enorme massa vestita di rosso. E’ uno scenario apocalittico. Tutti, ma proprio tutti, durante quei venti minuti vogliono bere e mangiare. Girano barili di rancida Budweiser. Chiunque abbia un bicchiere in mano, ne rovescia metà a ogni passo. Ci buttiamo sul cibo. La sorella chiede qualcosa di non eccessivamente calorico. Il barista, vestito di gadget di Wisconsin da cima a fondo, ci ride in faccia. Consiglia le cheese curds. Un tifoso al bancone, visibilmente alticcio, si unisce al consiglio, scongiurandoci di ordinarle. Non ve ne pentirete. Prendiamo coraggio. Ci decidiamo. Ordiniamo quelle, oltre a un paio di burger. L’uomo alticcio ci abbraccia. Yeah, cheese curds!. Vi chiederete, cosa saranno mai queste cheese curds?  Per i valtellinesi: immaginatevi degli sciatt scoloriti, con il formaggio sintetico al posto del casera. Per gli alri: immaginate del caglio di Filallegro Coop a pasta filata fritto in un olio di quarta mano, con una spruzzatina di birra. Risultato: un vassoio di bocconcini unti e sublimi, perfetti per ingannare l’attesa. La punta gastronomica di uno stato – il Wisconsin – dove i latticini costituiscono il 75% della dieta quotidiana. E il restante 25% sono birra e patate.

Dakari Johnson, Zak ShowafterSi riparte. Tripla Wisconsin. Di nuovo avanti di 7. C’è un clima di fervente attesa. L’impresa è nell’aria, la finale sembra ogni minuto più vicina. Ma la Kentucky di Calipari ha chili, talento, e il destino dalla sua parte. Quando sembrano in ginocchio, il Wildcats piazzano un 15-0 di parziale nell’arco di due minuti – mentre in tutto il locale cala il panico. L’unico che parla è un tipo muscoloso, maglia rossa e cappellino con la W bene intagliata. Si incazza per ogni rimbalzo offensivo concesso. Purtroppo per lui, capita spesso. Poi, quando Kentucky confeziona l’ennesimo canestro in stile passaggio-nel-mucchio-e-qualcuno-la-prende-e-schiaccia, perde definitvamente le staffe. Stop making fucking alley hoops. In a fucking Final Four! grida, ai limiti dello sfinimento. La sua frustrazione è ai massimi termini.Nelle retrovie, la Budwesier è l’unico rimedio alla disperazione. Dalle nostre donne, intanto, arrivano profondi commenti tecnici. Ma sono tutti bianchi contro tutti neri. Mai vista una cosa così! Per fortuna il muscoloso in maglietta non capisce l’italiano.

Mai dire mai, però. Perchè Wisconsin è Wisconsin. Quest’anno ha dentro qualcosa di magico. Non si arrende, non fa una piega. 5 punti di Dukan, improbabile protagonista. Poi Brust riprende a sforacchiare il canestro. Contro parziale di 10-2, e punteggio in parità, a metà ripresa. Il bar rischia seriamente di saltare per aria. C’è tutto l’entusiasmo che c’era prima, più il sollievo di avere ancora una partita da giocare. Dalle retrovie si ricomincia con defense, defense, come se poi avesse davvero qualche effetto. Al secondo media time-out, con 12 minuti da giocare, sembra davvero di essere sugli spalti di qualche palazzetto. Passa un tipo che suona la tromba. Nessuno lo guarda. L’unica cosa ammessa, durante i timeout, è una tracannata di birra. Tiene lontana la tensione. Il tipo muscoloso, invece, è andato ben oltre. Aspettando che riprenda la partita, si è tirato la maglietta in faccia, scoprendo la pancia. I can’t handle this ripete. Non ce la posso fare. L’alce imbalsamato lo incenerisce con lo sguardo.

L'accigliato alce che seguiva le operazioni.

L’accigliato alce che seguiva le operazioni.

Volata finale. Prodezze ed errori, da una parte e dall’altra. Kentucky va avanti, torna la paura. Qualcuno ce l’ha a morte con Traevon Jackson, playmaker di Wisconsin, che pure sta giocando una buona partita. Tiralo fuori, non lo voglio vedere. Ma nella tensione nessuno lo ascolta. Di sicuro non lo può sentire coach Bo Ryan, che è a 2000 km di distanza da lì, e conduce la partita con la stessa faccia di sempre. Frank Kaminsky, sin lì deleterio, ha un guizzo, e riporta la partita in parità. Da lì in poi, c’è solo da trattenere il respiro. Qualcuno prova a intonare un Badgers Badgers, ma funziona poco. Persino la Budweiser non viene più servita. Si aspetta solo il responso del destino.

15 secondi alla fine. Wisconsin attacca malissimo, ma lo stesso Jackson, furbescamente, guadagna fallo sul tiro da tre punti. He traveled ammette qualcuno dalle retrovie. Ha ragione, visto che il replay mostra chiaramente il piede perno che viene cambiato mentre fa la finta. Ma non è una buona scusa per non festeggiare. Ci sono i liberi, c’è la possibilità di riprendersi il vantaggio. Poi, toccherà a Kentucky rispondere. Per la prima volta nella serata, si diffonde una cauta sensazione di ottimismo. Se Wisconsin è ancora viva, dopo tutto quello che è successo, allora può veramente farcela. I pochi secondi che separano il fallo dall’esecuzione dei liberi, paradossalmente, sono quelli più sereni. Come in ogni quiete che precede la tempesta.

Il resto è storia. Jackson fa 2/3, Kentucky si presenta dall’altra parte. 2 punti di svantaggio, pochi secondi per recuperarli. Come suo costume, Calipari non chiama timeout. Vuole che i suoi se la sbrighino da soli. Ne esce fuori un attacco raffazzonato, con vari rischi di palla persa. Per qualche strano gioco del destino il pallone schizza in mano a Aaron Harrison. L’angolo del campo è esattamente lo stesso da quale aveva purgato Michigan. Una finta, un passettino all’indietro, e poi la tripla da fermo. Tiro orrendo, mal costruito, a bassissima percentuale. E poi ha già usato due jolly, non può mettere anche questa. Non può proprio. Sì, certo. Non può. E infatti va dentro. Sorpasso, gelo, silenzio. Solo i pesci persici appesi alla parete sembrano avere una parvenza di vita. L’uomo con la maglietta è in ginocchio. Qualcuno inizia a piangere. Mancherebbero 5 secondi, ma nessuno ci crede più. Dopo due time-out, Jackson fa tutto il campo e sbaglia il tiro finale. Rimbalzo Kentucky, tanto per cambiare. L’audio si spegne. Qualcuno, dal bancone, mette la musica. Ma nessuno si accorge. Increduli, tutti si avviano verso l’uscita. La finale era lì, a portata di mano. E adesso è improvvisamente sparita.

La composta disperazione dei giocatori di Wisconsin dopo la partita. Dentro al bar non era molto diverso.

La composta disperazione dei giocatori di Wisconsin dopo la partita. Dentro al bar non era molto diverso.

Seguono scene toccanti, sportivamente parlando. Chi è rimasto dentro al bar prova a intonare l’inno, come quello di due settimane prima. I ragazzi meritano un ringraziamento, accidenti se lo meritano, ma nessuno è del morale giusto per elargirlo a dovere. Fuori, mentre i più si dileguano nella Chicago bianca e ordinata del North Side,  qualcuno è rimasto a elaborare il lutto. Un ragazzo fissa il vuoto. Fucking college basketball! continua a ripetere. L’amico, sigaretta in bocca, prova a consolarlo. Pensa che almeno abbiamo segnato più di 41 punti, gli dice, con chiaro riferimento all’ultima semifinale nazionale persa dai Badgers, nel 2000, quando Michigan State si impose per 53-41. Interviene un terzo, il più filosofico di tutti. Coraggio. Tra dieci anni toglieranno anche questa Final Four a Calipari, e questa serata non sarà mai esistita.

Traevon Jackson. Incolpevole bersaglio delle critiche.

Traevon Jackson. Incolpevole bersaglio delle critiche.

Ci allontaniamo, scossi a nostra volta. Avevamo simpatia per i Badgers, erano un’idealizzazione un po’ romantica del college basket che ci piace. A misura d’uomo, senza strilli, con classe in campo e fuori. E seguendoli ci eravamo affezionati. Per questo, non abbiamo voglia di dire niente. Vogliamo solo tornare a casa. Ma mentre torniamo verso la fermata, in mezzo al marciapiede c’è un personaggio allo stremo delle forze. E’ lo stesso che voleva la sostituzione di Traevon Jackson pochi minuti prima. Ora sta fermo, come un cane che punta i piedi. Un amico prova a convincerlo a spostarsi di lì, dove intralcia tutti. Ma lui non ne vuole sapere. Continua a parlare, la voce rotta dalle lacrime e dalle birre di troppo. Fucking Traevon Jackson. Ha dato il tiro della vittoria a fucking Traevon Jackson. Il suo ululato disperato è l’ultimo suono di una serata che difficilmente scorderemo.

Di lì a poco, per i Badgers giustizia sarebbe stata fatta. Nella finale di lunedì ci ha pensato Shabazz Napier, piccolo grande leader di University of Connecticut – anzi un misto tra Stephen Curry e Damian Lillard, come ci hanno gentilmente spiegato gli scout italiani che seguono in profondità la NCAA – a punire Kentucky, privando i Wildcats di un titolo che sembravano avere in mano. Ma non basta una gufata andata a buon fine a cancellare una serata così. Ci vorrà tempo, pazienza, fortuna. E allora tornerà l’irresistibile fascino della Madness. Lo stesso che, tra pessima birra e pesci imbalsamati, si respirava in quel bar. Anche nella disfatta.

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Alla scoperta del nuovo Anthony Mason

Il colpo d'occhio. Rosso di Wisconsin a dir poco dominante.

Il colpo d’occhio. Rosso di Wisconsin a dir poco dominante.

Pensieri in diretta dalla cara Milwaukee che nessuno mai considera (tranne noi). Una città dispersa tra capannoni e industrie, volto metropolitano di uno degli stati più agro-pastorali degli USA.  Arriviamo trafelati, in fuga dal traffico di Chicago, pronti a goderci una giornata di quelle che non possono andare male. Anche se l’approdo al Bradley Center è più avventuroso del previsto, rallentato dagli svincoli allucinanti di questa città – ogni volta più difficili da navigare – e dall’invasione dei tifosi di Wisconsin, che hanno preso in ostaggio qualsiasi parcheggio entro 2 km dall’arena. C’è rosso ovunque, anche nei bar dove di solito domina il gialloblu della locale Marquette University, per i cui studenti il rosso Wisconsin ha lo stesso effetto che ha su un toro incazzato. Un po’ come vedere il Pireo dipinto di verde, fatte le debite proporzioni. Ma il torneo NCAA cancella campi, storie, differenze, sponsor. E’ un folle tutti contro tutti fino a che le gambe reggono e la paura resta lontana. E allora ben venga l’invasione dei rivali. D’altra parte Madison è a un’ora scarsa, e il sogno di arrivare in Final Four qualcosa di più di un’utopia.

E così, la marea rossa di Badgers domina la scena. Non senza vivere un po’ di paura, per la verità, quando si trova sotto 10-17 dopo nemmeno 10’. Il proprio pubblico ammutolito e American University, università a vocazione intellettuale pressochè priva di tradizione sportiva, in grado di segnare da qualsiasi posizione. Sembra che la tavola sia apparecchiata per un bel drammone con tutti i crismi, compresa l’avvolgente Princeton Offense giocata da American, tanto per non farci mancare nulla dello stereotipo della research institution che si cimenta col parquet. Ci vuole il nostro arrivo a ridare fiducia ai Badgers, che rubano un paio di palloni e si sciolgono, divorandosi pian piano l’avversario fino al previsto più 40 finale. Dove 40 non è un’esagerazione, visto che è proprio finita 75-35.

Nella leggenda.

Nella leggenda.

Peccato che noi, mentre tutto questo succedeva, fossimo totalmente folgorati dalle prodezze di Tony Wroblicky. Un idolo scoperto all’improvviso, mentre ci stiamo sedendo nella nostra angusta postazione e spariamo un’occhiata distratta verso il campo. Quello che vediamo è qualcosa di onirico: un lungo mancino, agile ma non agilissimo, che tira i tiri liberi con una sola mano. Mettendosi l’altra dietro la schiena, quasi a non voler avere la tentazione di appoggiarla sulla palla. Un Anthony Mason in chiave bianca e moderna insomma, senza voler scomodare il Riccardo Pittis che tirava così perchè costretto, non certo per scelta sua. Peraltro, a differena dei primi due, Wroblicky – di cui non avevamo mai sentito parlare, a voler essere onesti – tira i liberi con il 72%, aggiungendo 12 punti, 7 rimbalzi, quasi il 60% dal campo. Un rappresentante degnissimo di quella Patriot League che John Feinstein ha raccontato magicamente nel suo libro “The Last Amateurs”, in cui racconta delle gesta di ventenni per cui il dogma “prima lo studio, poi il campo” vale veramente, e non per finta. Se poi tirano i liberi così e ogni due possessi partono con il gancione in corsa, allora ancora meglio. Opinione personale, ovviamente. Ma contiamo di avere dei seguaci.

Bo Ryan dopo la vittoria. Sembra sempre che voglia mangiarsi qualcuno. Ma lo vedremo anche in Final Four?

Bo Ryan dopo la vittoria. Sembra sempre che voglia mangiarsi qualcuno. Ma lo vedremo anche in Final Four?

Le seconda partita, quella tra Oregon e Brigham Young, doveva essere sulla carta equilibrata. Ma la carta, oltre che a scriverci sopra fesserie, serve appunto ad alimentare stufe e caminetti. E così Oregon ha dominato dall’inizio alla fine, con un solo passaggio a vuoto a metà ripresa. Troppo fisici, atletici, dirompenti i Ducks per una BYU che con il tempo non ha perso nè il pelo nè il vizio: tiri nei primi cinque secondi dell’azione, poca fisicità, predilezione matta per il tiro da fuori. E difesa improponibile per questi livelli. E così, senza Jimmer a togliere le castagne dal fuoco, è finita maluccio. Ci ha provato a un certo punto Matt Carlino, play mancino dei Cougars, che con due triple ha riportato i suoi a -3. E’ stato quello il momento di massimo tifo dentro l’arena, sia da parte dei fan di BYU, che da quelli di Wisconsin, evidentemente più felici di beccare loro sabato invece di Oregon. Ma poi la partita si è aperta in due, trascinandosi verso un finale senza patemi. Così come senza scossoni è stata la sfida successiva tra Michigan e Wofford, nonostante la brutta serata offensiva dei Wolverines. Ci ha dato il tempo di scrivere, filmare, cose, rifiatare, pensando all’interessante giornata che si prospetta sabato. Ci sarebbe poi anche stata un’ultima partita in programma, tra Arizona State e Texas. Ma le energie erano in riserva da un bel pezzo, e abbiamo preferito tornarcene verso Chicago, visto anche che cento miglia non sono pur sempre antipatiche, anche dopo la fine de grande freddo.

Patriottismo

Patriottismo

E così, seppur con emozioni più parsimomiose rispeto al passato, anche questa giormata di basket se ne è andata svanendo. Interessante, per non dire simbolico, che l’applauso più lungo, sentito, e caldo arrivi quando lo speaker chiede a tutti i veteran dell’esercito di alzarsi. Ce ne sono centinaia, sparsi per tutta l’arena. Vengono ringraziati per aver servito il paese, mentre sul maxischermo sventola la bandiera a stelle e strisce. Se la NBA è un affare globale, un’azienda tentacolare nella sua  espansione verso nuovi mercati, il college basket, anche nella sua manifestazione più famosa, resta una vicenda troppo americana per essere esportabile. Certi valori – il patriottismo e l’onore ai militari su tutti – sono sacri, non negoziabili. E non verranno mai dliuiti per nessuna esigenza di mercato. Bello o brutto, decidete voi. Non è che poi serva sempre schierarsi, peraltro.

 

 

 

 

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Elogio della Follia

Marzo, arieccoci. E mentre ci divertiamo a fingerci esperti con giocatori e squadre che tanto quasi nessuno ha mai sentito, arriva anche il momento di tenere la testa alta e difendersi. Dallo scetticismo, dalla malafede, e, soprattutto, dall’ignoranza dei primi della classe di chi non riesce proprio a capire.

Jimmer Fredette con la maglia di Brigham Young. Una leggenda del college basket.

Jimmer Fredette con la maglia di Brigham Young. Una leggenda del college basket.

Spieghiamo meglio. A metterci così di cattivo umore è stata una conversazione avuta negli ultimi minuti di Bulls-Spurs, esattamente una settimana fa. Partita al recycle time – il garbage era finito da un bel pezzo – spalti semivuoti, atmosfera lugubre. Almeno fino a quando Thibodeau non si gira verso la panchina e lancia in campo Jimmer Fredette. Nell’arena che fu teatro delle imprese di Michael Jordan si scatena l’apoteoasi, che diventa delirio quanto lo stesso Jimmer solca la metacampo con due palleggi, sfiora un blocco e spara una delle sue mine. Canestro, proprio come ai vecchi tempi. Ci vengono in mente i ricordi. Memorie imperiture di quando ci avventurammo in un incredibile viaggio in treno a New Orleans, apposta per vedere la sua ultima esibizione con la maglia di Brigham Young, nel South Regional del Torneo NCAA.  E finimmo inevitabilmente contagiati dalla Jimmer-mania, sotterrati dall’entusiasmo mormone che fece passare in secondo pieno persino le abbuffate di Po’Boy Sandwich in riva al Mississippi.

Ecco. Proprio in quel momento di abbandono alle emozioni, unico highlight di una serata funebre, irrompe il nostro stimatissimo collega europeo. Una persona a cui vogliamo bene, e con cui abbiano condiviso birre, pizze, partite.  Ma che quando si parla di college basket, riuscirebbe a far perdere la paziena a un santo. “Non capisco tutto questo entusiasmo” dice, con classico fare scettico, inutilmente provocatorio. “Dove è andato al college Fredette”? Questa non è una provocazione. Non lo sa davvero. “Brigham Young” rispondiamo. “E dove è?”. “Nello Utah!” replichiamo pazientemente, mentre il nostro, tre anelli di spettatori più sotto, si lancia in una virata plastica con appoggio al tabellone, facendo scendere altre lacrime. “Ma come nello Utah! Ma pensavo fosse andato in Illinois. Ma perchè tutti si entusiasmano così?”.

E allora, a quel punto, parte la discussione. Quella che abbiamo sempre, in qualsiasi momento, in qualsiasi contesto. Noi proviamo a spiegare perchè la NCAA ci appassiona di più del 95% delle partite di regular season. Lui, fingendosi interessato, ascolta e deride. Un botta e risposta senza fine e speranza, destinato a finire nell’irrazionale. “Come fai a dire che Fredette è stato così forte? Non ha mai vinto”. E ancora: “te lo dico io perchè piace. Perchè è piccolo e bianco”.

E allora, ancora scossi da quella conversazione, eccoci qui. Sette giorni e una Selection Sunday dopo, a spiegare perchè questa follia ci fa impazzire così tanto. Ogni anno sempre di più. E’ un tentativo che facemmo anche due anni fa, con risultati che dovete giudicare voi. Nel dubbio, a distanza di tempo, ci riproviamo. Sforzandoci di essere obiettivi, precisi, meticolosi. Insomma, di non buttare tutto sul classico ci sono gli upset e Davide batte Golia che ci trasformerebbe in banali ruminatori di frasi fatte.  Dunque, perchè ci piace? E perchè, soprattutto, dovrebbe piacere?

1-      Perchè ci piace la pallacanestro

Dimentichiamoci di cheerleaders, cori, rivalità, folklore. Il college basket è anche, e soprattutto, basket. Ci sono le divinità dei fondamentali, che sembrano usciti da un clinic. Doug McDermott? Ok, ma si può anche dire Jabari Parker. I fondamentali li insegnano anche nel West Side di Chicago. Poi ci sono quelli che saltano e schiacciano e vanno sempre sugli highlights. Aaron Gordon e Montrezl Harrell, anyone?  Ci sono i tiratori in serie che non sbagliano mai. Nik Stauskas? Ci sono i lunghi-che-stoppano, anche se sono un po’ claudicanti. Joel Embiid, per esempio. Ci sono i difensori arcigni, che scivolano, scivolano, scivolano sulle gambe e spesso portano anche via la palla. Aaron Craft, per dire. Ci sono i tuttofare, che per un certo periodo, ormai decaduto, si chiamavano all-around (o olraun, come diceva un mitico telecronista RAI che ha segnato, nel bene e nel male, la nostra infanzia). Marcus Smart domina tutti, ma date un’occhiata anche a DeAndre Kane e Terran Petteway, e trovere idoli per i vostri denti. Ci sono i prospetti, quelli che sono sulla bocca di tutti, e che vengono analizzati da tutti gli scout di questa Terra. Due nomi: Andrew Wiggins, Julius Randle.

Jabari Parker. Uno dei maggiori talenti del torneo che sta per iniziare.

Jabari Parker. Uno dei maggiori talenti del torneo che sta per iniziare.

Ci sono i bianchi che non corrono, non saltano, non si piegano. Ma tirano piedi per terra e fanno roteare i gomiti, quasi a volerci ricordare che, prima che inventassero i famigerati “stretch 4” erano già in grado di bombardare da tutte le posizioni. Occhio a Frank Kaminsky, per fare un nome. Insomma, il giochino è chiaro. Inventatevi una tipologia di giocatore, e tra quelle 68 squadre, per non parlare di quelle che sono rimaste fuori, la troverete.  Ah, a questo giro ci sono anche gli Italiani, fieramenta rappresentati dal nostro Amedeo Della Valle. Non più dodicesimo uomo, ma parte integrante delle rotazioni di Ohio State, e reduce da una grande serata nel torneo della propria conference. Insomma, il piatto è ricco, e va mangiato con gusto. Ad Amedeo, poi, va un in bocca al lupo particolare.

Il "nostro" Amedeo Della Valle.

Il “nostro” Amedeo Della Valle.

2-      Perchè i problemi si aggiustano in campo

Quando ci capitò l’occasione di incontrare Geno Auriemma, leggendario coach della squadra femminile di Connecticut, gli chiedemmo, con fare ingenuo, la classica domanda scontata. Ma cosa rende diverso allenare in NCAA dall’allenare i professionisti? La sua risposta, però, fu più originale di quel quesito sciatto. Non parlò di lezioni, di voti, di regole, di paccottiglia che riempie le media guide. Disse semplicemente “se sbagli a prendere un giocatore, te lo devi tenere”. Tradotto: il mercato non esiste. Gli innesti a metà stagione non sono possibili. E se un giocatore decide che è stufo, hai sbattuto via lui e una borsa di studio da 40-50mila dollari, senza ottenere nulla in campo. In verità, i mitici giocatori a gettone (di dice ancora?) sono più una specialità italico-europea che una cosa globale. Ma anche nella NBA, per quanto non si trovino sostituti a breve termine, il mercato esiste, e detta le sue regole. Si fa male qualcuno di forte, la stagione prende una brutta piega, i playoff sono lontani. Bene, si smobilita, o si ricostruisce, o si attende l’estate. Nel college, mai. Una stagione perdente serve solo a scoraggiare futuri liceali da scegliere quell’università. Un posto che si libera diventa un’occasione di emergere per qualcuno che, pazientemente, stava aspettando il proprio turno. Che dire di Casey Prather, senior di Florida? Tre stagioni rispettivamente a 1.2, 2.0 e 6.2 punti di media. E poi, grazie a infortuni, problemi disciplinari di altri, casini e circostanze, finalmente tanti minuti. Risultato? Una stagione da miglior realizzatore di quella che è, al momento, la netta favorita per la vittoria finale.

3-      Perchè gli allenatori sono più che allenatori

Bo Ryan. Icona dell'allenatore NCAA, il demiurgo di un sistema più che in semplice tattico

Bo Ryan. Icona dell’allenatore NCAA, il demiurgo di un sistema più che in semplice tattico

Corollario del punto di cui sopra. In un sistema del genere, gli allenatori hanno pieni poteri. Devono reclutare, allenare, consigliare, viaggiare, parlare ai donatori dell’università, controllare che i ragazzi vadano a lezione, vincere, insegnare. In poche parole: fare il fantoccio del GM o della dirigenza è impossibile. Non che i grandi allenatori manchino in NBA. Vediamo allenare Thibodeau da tre anni, e gli erigeremmo una statua or ora. E sappiamo che  ci sono i Popovich, i Phil Jackson (a cui, peraltro, della NCAA non gliene potrebbe fregare di meno), i Larry Brown (ah, ora allena al college però!). Il nostro punto è un altro. E’ che i coach, nella NCAA, hanno così tante responsabilità e potere, nel senso positivo e negativo, da essere protagonisti assoluti di ogni vittoria, e responsabili di ogni sconfitta. Il “eh, ma anche con mia nonna in panchina avrebbero vinto” non esiste proprio. Perchè per allestire una squadra forte, devi andartela a cercare, devi costruirla, devi convincere i giocatori a venire da te invece che ad andare dai tuoi rivali. Devi trovare il modo di farli giocare assieme.  Il tutto, aggratis (per loro, non per i coach, che hanno infatti stipendi spesso milionari). Basta gurdarsi attorno, e si vedono tanti allenatori che, a prescindere dal materiale umano a disposizione, riescono sempre a imprimere il proprio marchio. Ecco perchè, a queste latitudini, parlare di sistema ha ancora senso. Non solo in senso tattico, ma come cultura, tradizione, modus operandi di un’università. Pensate a Bo Ryan a Wisconsin. Anti-personaggio, scorbutico, riservato, paladino di un basket che sembra uscito dagli anni ’60. Eppure, 13 anni da allenatore, 13 qualificazioni al torneo. In una delle conference più toste degli Stati Uniti. E sempre con lo stesso sistema di gioco, lo stesso stile, lo stesso tipo di giocatori, gli stessi tagli e le stesse difese. Che possono piacere o non piacere, ma sono parte di un’identità locale. Come avete visto, non ci siamo scomodati nemmeno a fare il nome di Duke. Perchè di fulgidi esempi di condottieri se ne trovano a bizzeffe. E senza bisogno di scomodare l’eccellente commissario tecnico della Nazionale più forte al mondo.

4-      Perchè gli One-and-done contano fino a un certo punto.

Argomentazione che si sente spesso. “Ah, ma con tutti questi one-and-done, il college basket ha perso identità”. Gli one-and-done, per chi non lo sapesse, sono i giocatori che, a  causa di una regola che impone loro di aspettare un anno prima di dichiararsi al draft, devono “svernare” per una stagione in NCAA, con la certezza quasi matematica di lasciare dopo il primo anno. Portati in auge dal tanto discusso coach John Calipari, sono visti da una buona fetta di tifosi come una rovina dello spirito del college basket, dei viziati professionisti in transito. Salvo, ovviamente, quando uno di loro gioca nella propria squadra. L’ultimo strale, in particolare, è arrivato dal commisioner della Pacific 12, insigne conference della costa occidentale, evidentemente dimentico di quando la stessa conference si fregiava di mandare una rappresentante (UCLA, per la precisione )alla Final Four per tre anni di fila, grazie anche e soprattutto allo sforzo di “one-and-done” per eccellenza come Kevin Love. Ma insomma, il punto non è discutere se avere questi giocatori sia bene o male (non abbiamo nemmeno un’opinione precisa al riguardo). Il punto è che la loro influenza è stata molto minore, numeri alla mano, di quanto si possa credere. Solo un anno, nel 2012, una squadra costruita interamente su giocatori del genere ha vinto il titolo: era la Kentucky di Anthony Davis (oh, yeah) e Marquis Teague (aaargh!), dominante dall’inizio alla fine del torneo. Nel 2007 e nel 2008 due squadre guidate da one-and-done – la Ohio State di Greg Oden e la Memphis di Derrick Rose – arrivarono a un passo dalla vittoria, arrendendosi in finale. Ma le altre vincitrici hanno sempre avuto tutte una robusta componente di giocatori “esperti”, al terzo o quarto anno. Florida nel 2007 aveva Joakim Noah, Al Horford, Corey Brewer.  Kansas, nel 2008, Brandon Rush, Darrell Arthur. North Carolina, nel 2009, Tyler Hansbrough, Danny Green, Ty Lawson. Duke, nel 2010, Kyle Singler, Nolan Smith, Jon Scheyer, la coppia di lunghi Zoubek-Thomas. Connecticut, nel 2011,  Kemba Walker e Alex Oriakhi. Louisville, nel 2013, Russ Smith, Peyton Siva, Gorgui Dieng. E quest’anno solo Arizona, tra i seed n.1, vanta un rappresentante della categoria (Aaron Gordon). Mettetela come volete: la presenza degli one-and-done è servita spesso a raggiungere la Final Four, o a fare strada nel torneo. Ma non è quasi mai stata garanzia di titolo. Segno che, a conti fatti, le cose non sono state destabilizzate così pesantemente da questi personaggi. Anzi, segno proprio che il sistema tiene, e che i freshmen di lusso, invece che snaturare il giochino, hanno alzato il livello della competizione, mostrandosi devastanti eppure vulnerabili. Come qualsiasi diciassettenne deve essere.

5 – Perchè c’è Doug McDermott

Doug McDermott. Classe purissima.

Doug McDermott. Classe purissima.

E basta e avanza. Il probabile MVP della stagione è uno dei giocatori più incredibili mai visti a questo livello. Non tanto perchè è un’inarrestabile macchina da canestri. E nemmeno perchè è figlio di un allenatore dispotico che non gli aveva nemmeno offerto una borsa di studio all’università che allenava prima (attenzione perchè, se vincerà un paio di partite, i media americani verseranno inchiostro a fiumi su questa vicenda). No. Quello che rende McDermott speciale è che è un libro aperto di tecnica, capace di eseguire ogni dettaglio come vorrebbe un manuale. Il tiro da fuori, il piede perno, la virata, l’uso del corpo per farsi scudo, la mano sinistra, il modo di tagliare verso il centro dell’area. L’ortodossia cestistica fatta persona, incarnata da un manzo con la faccia da bambino e le movenze di un qualsiasi ragazzone di 2.05. Almeno fino a che non lo si vede maneggiare la palla. In molti lo hanno paragonato proprio a Fredette. Eppure, al di là del colore della pelle e del vizio di fare canestro, i due hanno in comune meno di quanto sembri. Tanto quanto il primo era creativo e avanguardista, il secondo è un esercizio di fondamentali vivente. Tifare per vedere lui e la sua Creighton fare strada è il minimo che un appassionato di pallacanestro possa fare.

6-      Perchè è una figata pazzesca

Tifosi in fila per entrare a una partita. Scena che racchiude la passione che anima il college basket.

Tifosi in fila per entrare a una partita. Scena che racchiude la passione che anima il college basket.

Avevamo detto che avremmo parlato di March Madness ignorando l’aspetto folkloristico. Ah, qualcuno ci aveva pure creduto? Per quanto ci sforziamo di essere analitici – pur senza sparare alcun numero, giacchè non li sappiamo – parlare di college senza parlare di ciò che ci sta attorno è impossibile. Bande, cori, genitori, studenti, parenti, ottantenni in tribuna con il dente avvelenato, invasioni di campo, bracket disegnati sulle vetrate delle birrerie. Non dobbiamo certo essere noi a dire che tutto questo costitutisce un contorno irresistibile, piccante.

Frangia ultrà di Albany. Folklore in azione

Frangia ultrà di Albany. Folklore in azione

La March Madness è un evento per cui davvero l’America si ferma, o quasi. Le famiglie si riuniscono. Le routine si riscrivono. Abbiamo sentito storie di classi delle medie interrotte nelle scuole del Kentucky. Abbiamo visto migliaia di mormoni per le goderecce strade di New Orleans. Ci siamo ritrovati nel bel mezzo di importanti convegni accademici con lo streaming in funzione, a fianco a professori egualmente indaffarati a non perdersi le partite. Scene da fare invidia al chi ha fatto palo?, che raccontano di un’America appassionata, autoironica, vogliosa di divertirsi. Ancora troppo poco note a chi, frettolosamente, tira fuori lo stereotipo dello spettatore obeso e interessato solo all’hamburger. Non che quello non esista, eh. Solo che in genere è il turista spagnolo o italiano che passa per Chicago o New York. E che non si è ancora fatto contagiare dalla follia

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Colli di bottiglia (ovvero, Kentucky, parte II: pellegrinaggi lungo il bourbon trail)

???????????????????????????????Sullo schermo piatto compare un uomo calvo. Adagiato su un tavolo di legno, parla un inglese così strano da non sembrare nemmeno madrelingua.  Mostra thRRRRee bottiglie di birra, con la r durissima. C’è la summer ale, leggera e dissetante. La Indian Pale Ale, fruttata e dai saporti forti. E poi il colpo di genio, uno dei simboli del Kentucky: la bourbon barrel ale, lasciata per sei settimana a decantare nei barili dove qualche mese prima era stato a invecchiare il bourbon whiskey, assorbendone i rimasugli dolciastri e il colore rossastro. Ci troviamo nel negozio della Town Branch distillery and brewery, in centro a Lexington. La triade di birre è la specialità della casa. L’uomo calvo sullo schermo televisivo, invece è il Dottor Pearse Lyons, improbabile eroe fai-da-te dell’imprenditoria alcolico-agricola americana, e padre padrone di Town Branch. Parla un inglese assurdo perchè è irlandese purosangue, di Dublino, con trascorsi di studio in Inghilterra, dove prese un dottorato di ricerca in yeast fermentation, fermentazione del lievito. Sì, proprio così.

A carriera già abbondantemente inoltrata, capitò in Kentucky per motivi di lavoro, e decise che qui avrebbe fatto partire la sua grande scommessa. Fondò Alltech, società di consulenza, dove poteva applicare le sue conoscenze scientifiche al servizio dei produttori di birra. La leggenda – letta su Wikipedia, come ogni buon giornalista d’inchiesta– vuole che tutto partì in un garage, con un investimento di 10mila dollari, e che dopo due mesi fosse già in attivo. E così la sua attività si espanse a dismisura, estendendosi alle biotecnologie e alla produzione di mangimi per animali di allevamento, fino a rilevare la storica birreria di Lexington, avviata verso il fallimento. Una decisione, quest’ultima, a metà tra uno sfizio e un capriccio. Voleva semplicemente che il figlio, studente all’University of Kentucky, iniziasse a scoprire il mondo della birra con un tirocinio presso il birrificio locale.  E l’unico modo, a quel punto, era comprare il birrificio stesso.

Pearse Lyons stacca un assegno per uno studente. Dopo aver salvato e rilanciato la distilleria locale, il suo legame con Lexington e l'università è fortissimo. http://www.alltech.com/news/photos/willnardandersonawardceremonyjpg

Pearse Lyons stacca un assegno per uno studente. Dopo aver salvato e rilanciato la distilleria locale, il suo legame con Lexington e l’università è fortissimo.
http://www.alltech.com/news/photos/willnardandersonawardceremonyjpg

“E’ stato un grande, grande uomo d’impresa” racconta alla fine del video la guida che ci introduce al nostro tour. Una biondina di nemmeno trent’anni, pervasa da uno sguardo sognante ogni volta che si trova a parlare del suo onnipontente datore di lavoro. L’atteggiamento di adorazione è caricaturale.  A tratti, tocca i picchi fantozziani verso il megadirettore naturale. Ma, al di là delle esagerazioni, bisogna anche capire quello che Lyons ha realmente fatto per questa piccola azienda e per i suoi prodotti, inventandosi una storia di successo da un fallimento quasi annunciato. Verrebbe da parlare di sogno americano, anzi di american dream (in inglese e pure in corsivo per sembrare più evocativi). Ma a quello ci penseranno già i fantomatici corrispondenti illuminati, se e quando molleranno la poltrona di Washington e verranno a fare un giro da queste parti.

La prima parte della visita avviene nel birrificio.

Il birrificio e la distilleria visti da fuori

Il birrificio e la distilleria visti da fuori

La biondina si è fatta da parte, preparandoci a intortare un’altra comitiva e consegnandoci a un personaggio affabile, con occhiali spessi e berretta calata quasi sugli occhi. L’uomo ci illustra le varie fasi del processo, soffermandosi sull’impianto di imbottigliamento. “Possiamo produrre fino a 32mila bottiglie alla settimana. Non tante. Puoi fare tutta la birra che vuoi, ma se non hai i mezzi per imbottigliarla, diventa inutile”. Le bottiglie di bourbon ale giacciono in fila indiana, pronte a essere riempite. L’uomo si spiega che la produzione si sposterà di qualche centinaio di metri, dove un nuovo impianto, molto più potente, potrà permettere di raggiungere un rendimento migliore. “L’impianto che vedete è il collo di bottiglia della nostra produzione, e mi scuso sin da ora per una battuta così oscena” dice l’uomo, fintamente imbarazzato, mentre il resto del nostro gruppo è piegato dalle risate. Con i clienti, indubbiamente, ci sa fare.

Town Branch è stata l’ultima distilleria a essere inserita come tappa del bourbon trail, letteralmente il “sentiero del bourbon”, il pellegrinaggio a cui sono chiamati tutti gli appassionati di questo liquore. Le distillerie sono a poche decine di chilometri di distanza, annidate tra le dolci colline che separano Louisville da Lexington. I pellegrini possono sfruttare le ampi e poco trafficate strade del Kentucky per spostarsi da un luogo di produzione all’altro e sentire gli odori del processo di distillazione, facendosi timbrare l’apposito passaporto con lo stemma di ogni distilleria. Ma Town Branch è giovane, e non si è ancora fatta un grande nome con il liquore. I suoi pezzi forti sono la birra, e il Bluegrass sundown – da leggere sundaun, con accento misto di Kentucky e Irlanda un miscuglio micidiale di caffè e bourbon, che viene idealmente diluito con un bicchiere di acqua bollente e uno strato di panna. “L’ideale drink per il dopocena” dice il nostro amico, che nel frattempo si è tolto la berretta e sta preparando un cicchetto per tutti.

The sundown!

The sundown!

“E’ il compleanno di qualcuno per caso?” chiede alla folla. Si fa avanti una signora settantenne, che vince un bicchierozzo di sundown e panna paragonabile, per dimensioni, a un frappuccino di Starbucks. “Mi raccomando, guidate con prudenza” ci saluta l’amico, mentre si prepara a strisciare le carte di credito dei visitatori che vogliono acquistare un souvenir. Portiamo via una boccia di sundown anche noi, per non farci mancare niente. E mentre realizziamo che quell’intruglio è la cosa più simile a un bombardino che abbiamo trovato negli Stati Uniti, capiamo che il Kentucky non finirà mai di stupire.

Nel cuore di Four Roses. Notare le scritte in giapponese. Irlanda what?

Nel cuore di Four Roses. Notare le scritte in giapponese. Irlanda what?

Per il bourbon più buono, invece, ci tocca andare 30 km a sud di Lexington, nello sperduto paesino di Lawrenceburg. Lì si trova la Four Rose distillery, marchio storico del bourbon trail, e produttrice rinomata di liquore di qualità. L’irlandese in Kentucky può sembrare fuori posto, ma è giusto sapere che Four Roses, e con essa il suo brand, è di proprietà della Kirin Brewery, società giapponese che decise di imbastire l’operazione dopo che si accorse che il bourbon, sui mercati asiatici, andava alla grande. Anche – e soprattutto – quando era di qualità semi-scadente. Se il clima a Town Branch era goliardico, da aziendina di famiglia diventata affare importante, a Four Roses c’è atmosfera da multinazionale. La guida è un’altra bionda, questa volta, però, seria come la morte. Dopo una breve illustrazione della sezione di un barile, resa complicata dal vento tagliente, ci conduce attraverso i vasconi di fermentazione, accertandosi che non sbattiamo la testa contro i tubi. L’aria è un concentrato di odori acri.

Fermentazione in corso

Fermentazione in corso

Ricorda l’oatmeal, il pappotto di avena che gli americani divorano a colazione. La bionda, con ritmo deciso, percorre il processo di produzione. Il lievito arriva dalla Danimarca. Il granoturco dall’unica fattoria in Indiana che non produce OGM. At Four Roses we strive for excellence. Peccato che, quando l’abbiamo interpellato sull vicenda, l’uomo con gli occhiali di Town Branch si fosse fatto una grossa risata. “Ah sì, a Four Roses dicono di usare granoturco non modificato? Interesting!”.

Sulla via di casa, ripercorriamo il sottile miscuglio di marketing, odori, vapori, patriottismi locali e globali a cui siamo stati sottoposti. Le degustazioni ci hanno reso allegri, rendendo la conversazione più fluida. “La genialata di queste distillerie? Unirsi a fare il bourbon trail. Inventare il passaporto. Superare la competizione per costringere i turisti a visitarle tutte” dice Greg, con la consueta saggezza. Chi completa il passaporto del trail, recuperando il timbro di ogni distilleria, vince una maglietta gratis. E’ bastato questo stratagemma a creare, dal nulla, una tradizione. Qualcosa di inconfondibilmente locale, anche se viene da lontano.

Il passaporto

Il passaporto

Mentre le chiacchiere scorrono, passiamo davanti a The Castle Post, meglio noto come “il castello”. E’ la residenza più lussuosa di tutto lo stato, genialmente costruita alle porte della città di Versailles. E’ un edificio spettrale in mezzo al nulla, circondato da terreno spoglio, con merletti magistramente intagliati. Scopriamo che ci venne a dormire la regina Elisabetta, durante una delle sue visite in Kentucky dettate dalla sua passione per i cavalli. E’ l’ultimo fotogramma del pomeriggio, prima di rintanarci in casa a goderci l’ultima serata del fine settimana.

Il giorno dopo, la trasferta finisce come doveva finire. Pausa in supermercato di alcolici gigantesco, e acquisto ingordo delle primizie appena saggiate. Sul nostro passaporto abbiamo due timbri. Anche se abbiamo scoperto di poter fare a meno del basket, abbiamo comunque un’altra scusa per tornare tra queste colline.

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Febbre da cavallo (ovvero: Kentucky, parte I: dove si fabbricano i purosangue)

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La tomba del fuoriclasse. Sepolto intero, a celebrarne la grandezza

Horses, bourbon and basketball. In tre parole, il Kentucky. Così annuncia Greg, colui che, assieme alla moglie, ci ha eroicamente ospitato per un lungo fine settimana a Lexington, luogo simbolo di questo stato dai contorni zigzaganti. “Uno stato stranissimo. E’ uno di quelli che spinge più forte per implementare la riforma sanitaria di Obama, e al tempo ha alcune tra le sacche conservatrici più forti del paese” ci spiega durante la colazione. “Puoi pensare a Lexington e Louisville come a due Copenaghen in mezzo al Pakistan. Due bolle blu dentro a un mare di rosso” aggiunge, facendo riferimento al dualismo cromatico che divide i democratici (in blu) dai repubblicani (in rosso) sulle mappe pre-elettorali. Ci troviamo a poche centinaia di metri dal campus della University of Kentucky . Sono in tutto meno di 6 ore di macchina da Chicago – tutto sommato nulla per le distanze americane –, ma sembra davvero di essere in un altro mondo. Per paesaggi,cultura, influenze, e soprattutto accento dei locali.

A dirla tutta, avrebbe dovuto essere un sabato di basket, con Kentucky-Tennessee in programma alla storica Rupp Arena di Lexington, e copioso materiale per millantare di draft, NBA, futuri talenti. Fingendosi pure esperti in materia. Ma dall’addetto alle pubbliche relazioni degli Wildcats è arrivato un sonoro diniego per il nostro pass stampa – a ricordarci per l’ennesima volta la salutare lezione che il college basket è roba per americani, e un giornalaio italiano è sempre il primo a restare fuori quando le richieste diventano numerose. E allora, con il biglietto più economico venduto a 150 dollari, abbiamo deciso di ignorare completamente la pallacanestro, volgendo le nostre mire ad altri obiettivi. Avrebbe dovuto essere una sofferenza epica, uno smacco per le nostre passioni. Ma vogliamo essere onesti, e ammettere che si vive benissimo anche senza basket, nonostante ci piaccia far credere – a noi stessi e agli altri – l’esatto contrario.

E allora, tolto un elemento della triade, restano gli altri due, che faranno da colonna sonora per tutto il fine settimana. Cavalli, oggi, e bourbon, domani. “Sa che una sua monta vale 40mila dollari. Per questo se la prende con calma” scherza Bernie mentre aspetta che Arch, stallone di punta del maneggio, si degni di avviarsi verso l’ingresso del suo sconfinato recinto. Dal 2002 Bernie è un horse groom di Claiborne Farm, fattoria specializzata nel produrre – letteralmente – cavalli purosangue che andranno a battersi nelle più prestigiose competizioni equestri del mondo. Animali che alimentano un giro di affari astronomico, tra scommesse, corse, compravendita, inseminazioni. “Siamo più protetti di Fort Knox” dice Bernie, facendo riferimento al sistema di telecamere che sorveglia i recinti, e i suoi preziosissimi abitanti. Ma Kristin, l’amica che ci ha accompagnato in questo tour equestre, è più diretta. “E’ un bordello per cavalli. Prostituzione equina”

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Erba, colline, acqua. E cavalli

Claiborne Farm sorge nelle campagne di Paris[1], paesino di ottomila abitanti a meno di trenta chilometri da Lexington. Ci si arriva grazie a una nostalgica mezzora di autentiche country roads, con curve assassine e dossi ciechi che tagliano le praterie collinose. Una specie di Umbria-Toscana in salsa americana, con la lieve differenza che tutto attorno si vedono solo recinti, cavalli al pascolo, cavalli ibernati, mucchi di fieno e di letame.  E qualche cimitero sparso, non si capisce bene se umano o equino. E’ il Kentucky che mostra i propri gioielli, mentre noi, rapiti dalle distese infinite e dall’erba inspiegabilmente verde, perdiamo per un paio di volte l’ingresso giusto. ???????????????????????????????Poi, finalmente, salutati da un cartello militaresco, imbocchiamo il viale che ci porta dritti all’ingresso di Claiborne Farm, dove Bernie ci aspetta nel parcheggio. “Benvenuti” ci dice, con il cantineloso accento della zona. C’è giusto tempo di una corsa in bagno – dove la sosta viene allietata dal poter dei Wildcats appeso proprio sopra la tazza del cesso. Un perfetto spunto per quello che, prigionieri del nostro orgoglio, avremmo voluto fare nei confronti dell’addetto stampa di cui sopra.

Il tour inizia a spron battuto. La prima tappa è la stanza più importante. Un box di pochi metri quadrati dove vengono portate le mares – le femmine – per l’accoppiamento con lo stallone. This is where everything happens dice orgoglioso Bernie, raccontandoci di come venti minuti di sesso bestiale bastino a portare a termine l’inseminazione e a portare denari freschi nelle casse della fattoria.

La stanza dove avvengono gli accoppiamenti. O il bordello, a seconda dei punti di vista.

La stanza dove avvengono gli accoppiamenti. O il bordello, a seconda dei punti di vista.

Ci porge un foglio pieno di cifre, in cui vengono riportati i dati per tutti gli stalloni della fattoria. Ogni stallone ha una scheda anagrafica, con le misure fisiche e due parametri monetari: quando ha incassato durante la sua carriera agonistica e, soprattutto, quanto hanno incassato (o stanno incassando) i suoi discendenti più illustri. E’ quest’ultima cifra a essere quella più importante per determinare la stud fee – il prezzo che il padrone della femmina dovrà pagare per l’accoppiamento. Si va dai 2500 dollari per Horse Greeley – appena ritiratosi dalle corse – ai 150mila (!) per War Front, la stella di Claiborne, il padre di alcuni dei cavalli più vincenti a livello planetario. E’ una sorta di scommessa sulla genetica: più hanno vinto i discendenti di quella stirpe, più sarà probabile che il nuovo nato, con l’adeguato addestramento, possa essere competitivo. Ma c’è anche chi, invece di puntare sulle vittorie, vende immediatamente il piccolo, cercando di guadagnare il più possibile nel processo.

Più protetti di Fort Knox.

Più protetti di Fort Knox.

Passiamo a visitare le stalle dove vengono rinchiusi gli animali di notte. Le placche in argento con i nomi dei cavalli creano un’atmosfera da grand hotel, ma è la sana puzza di sterco e di fieno a farla da padrone. Poi torniamo fuori, verso i recinti dove vengono tenuti gli stalloni di giorno. Rigorosamente separati, per evitare che si azzufino. Arriviamo davanti a quello di Orb, ex campione da poco adibito al ruolo di stallone. Bernie lo chiama, mostrando il palmo della mano, e lui arriva placidamente, attratto dalla caramella di menta. “La usiamo come strumento di educazione. Se capiscono cosa devono fare, caramella. Se sbagliano, niente caramella” dice Bernie, mentre si gode lo sguardo di ammirazione del pubblico. Porta il cavallo in mezzo ai presenti, per consentire loro di accarezzarlo o di somministrargli un’altra mentina. Bernie lo coccola a scapaccioni. He thinks he’s the man” dice bonariamente.

He thinks he's the man!

He thinks he’s the man!

Una frase che poi userà, immutata, per tutti gli altri stalloni che andremo a trovare, passando da un recinto all’altro. Tutti galli dentro al loro pollaio.

La visita prosegue, tra una raffica di vento e l’altra. Abbiamo le dita dei piedi gelate, ma gli altri membri del gruppo non demordono. C’è una nonna di Saint Louis con un’intera batteria di nipoti. Fa domande a raffica, strillando awesome! per ogni cosa che esce dalla bocca di Bernie. Racconta di gare leggendarie, di momenti indimenticabili. Quando lei era lì, a vedere il rush finale di una gara, e sentiva l’atmosfera, e capiva di essere nell’evento sportivo più bello che le fosse mai potuto capitare. La sua passione è pari a quella di molti abitanti del Kentucky. Quelli più abbienti acquistano quote dei cavalli (o cavalli interi) e scommettono sulle corse. Gli altri, quelli che seguono, si affezionano a un nome e lo sostengono sempre e comunque, un po’ come accade con un pilota di Formula 1. Il picco di attività febbrile arriva alla prima settimana di maggio, con il Kentucky Derby. L’unico evento sportivo a calamitare più attenzione locale di una partita dei Wildcats. In quelli che vengono normalmente considerati “i due minuti più esaltanti nello sport”, purosangue di tre anni si sfidano in diretta nazionale. Bernie racconta di una bambina che venne a visitare Claiborne Farm con la famiglia, e che si rifiutò di accarezzare uno dei cavalli, reo di aver soffiato la vittoria al suo beniamino in una recente gara. “Tornò dopo pochi mesi, e consegnò al cavallo una lettera di scuse”.

Siamo agli sgoccioli. L’ultima tappa è il cimitero dei cavalli.

Dormono, dormono sulla collina.

Dormono, dormono sulla collina.

Un cortiletto di pochi metri quadrati con una ventina di lapidi ordinate in maniera precisa. “Qui è sepolta la storia” annuncia Bernie, con un tono trionfale che poco si addice a uno spazio funebre. Snocciola una breve biografia dei defunti, soffermandosi però sulle gesta del leggendario Secretariat, uno dei purosangue più famosi mai esistiti. Nel 1973 inanellò la vittoria di Kentucky Derby, Belmont Stakes e Preakness Stakes. Un Grande Slam riuscito solo ad altri otto colleghi nella storia. Venne eletto dal network televisivo ESPN come il 35esimo sportivo più grande di sempre, e si meritò una rara sepoltura intera al momento della morte, nel 1989. “Di solito si seppelliscono la testa e il cuore. Ma di lui si è seppellito tutto. Quando morì si scoprì che il suo cuore pesava il doppio di quello degli altri. Un’anomalia, un segno della sua grandezza” chiude Bernie, visibilmente commosso.

La nostra sortita volge al termine. Bernie ci ricorda che, se abbiamo una cavalla e non sappiamo che uso farne, possiamo sempre consultare il sito di Claiborne Farm per farla mettere incinta da qualche ex campione. Il marketing aziendale, prima di tutto. I cancelli si chiudono dietro di noi, mentre gli stallieri vanno a recuperare bestie da milioni di dollari, accompagnandole docilmente nelle loro maleodoranti suite. Il loro lavoro richiede passione e grande delicatezza. Un errore può costare caro, viste le polize assicurative milionarie a cui sono sottoposte queste bestie. “Hanno assistenza sanitaria di gran lunga migliore rispetto a quella di un cittadino medio del Kentucky” ci ricorda Kristin mentre usciamo da quel mondo isolato. Dall’altra parte della fattoria, al di là di un fiumiciattolo artificiale, una ventina di mares pascolano tranquille, senza pericolo di risse. E’ quella l’ultima immagine della mattinata, che si chiude con un pranzo sostanzioso nell’unico locale aperto di Paris.

Downtown Paris. Avevamo detto di evitare battute facili, ma è come se avessimo già sgarrato.

Downtown Paris. Avevamo detto di evitare battute scontate

E’ un rifornimento energetico necessario, prima di passare all’esplorazione del bourbon e delle sue distillerie. Il secondo membro della triade che fa grande il Kentucky. Il terzo è il basket, e per oggi possiamo solo vederlo in tv.

(parte 1 – continua)

[1] inciso, per non perdersi in facili ironie: metà dei posti negli Stati Uniti porta il nome di una località europea, famosa o meno. Addentrarsi nelle analogie e differenze tra gli originali e le copie meriterebbe un post a sè stante. Ma forse anche no..

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