Febbre da cavallo (ovvero: Kentucky, parte I: dove si fabbricano i purosangue)

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La tomba del fuoriclasse. Sepolto intero, a celebrarne la grandezza

Horses, bourbon and basketball. In tre parole, il Kentucky. Così annuncia Greg, colui che, assieme alla moglie, ci ha eroicamente ospitato per un lungo fine settimana a Lexington, luogo simbolo di questo stato dai contorni zigzaganti. “Uno stato stranissimo. E’ uno di quelli che spinge più forte per implementare la riforma sanitaria di Obama, e al tempo ha alcune tra le sacche conservatrici più forti del paese” ci spiega durante la colazione. “Puoi pensare a Lexington e Louisville come a due Copenaghen in mezzo al Pakistan. Due bolle blu dentro a un mare di rosso” aggiunge, facendo riferimento al dualismo cromatico che divide i democratici (in blu) dai repubblicani (in rosso) sulle mappe pre-elettorali. Ci troviamo a poche centinaia di metri dal campus della University of Kentucky . Sono in tutto meno di 6 ore di macchina da Chicago – tutto sommato nulla per le distanze americane –, ma sembra davvero di essere in un altro mondo. Per paesaggi,cultura, influenze, e soprattutto accento dei locali.

A dirla tutta, avrebbe dovuto essere un sabato di basket, con Kentucky-Tennessee in programma alla storica Rupp Arena di Lexington, e copioso materiale per millantare di draft, NBA, futuri talenti. Fingendosi pure esperti in materia. Ma dall’addetto alle pubbliche relazioni degli Wildcats è arrivato un sonoro diniego per il nostro pass stampa – a ricordarci per l’ennesima volta la salutare lezione che il college basket è roba per americani, e un giornalaio italiano è sempre il primo a restare fuori quando le richieste diventano numerose. E allora, con il biglietto più economico venduto a 150 dollari, abbiamo deciso di ignorare completamente la pallacanestro, volgendo le nostre mire ad altri obiettivi. Avrebbe dovuto essere una sofferenza epica, uno smacco per le nostre passioni. Ma vogliamo essere onesti, e ammettere che si vive benissimo anche senza basket, nonostante ci piaccia far credere – a noi stessi e agli altri – l’esatto contrario.

E allora, tolto un elemento della triade, restano gli altri due, che faranno da colonna sonora per tutto il fine settimana. Cavalli, oggi, e bourbon, domani. “Sa che una sua monta vale 40mila dollari. Per questo se la prende con calma” scherza Bernie mentre aspetta che Arch, stallone di punta del maneggio, si degni di avviarsi verso l’ingresso del suo sconfinato recinto. Dal 2002 Bernie è un horse groom di Claiborne Farm, fattoria specializzata nel produrre – letteralmente – cavalli purosangue che andranno a battersi nelle più prestigiose competizioni equestri del mondo. Animali che alimentano un giro di affari astronomico, tra scommesse, corse, compravendita, inseminazioni. “Siamo più protetti di Fort Knox” dice Bernie, facendo riferimento al sistema di telecamere che sorveglia i recinti, e i suoi preziosissimi abitanti. Ma Kristin, l’amica che ci ha accompagnato in questo tour equestre, è più diretta. “E’ un bordello per cavalli. Prostituzione equina”

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Erba, colline, acqua. E cavalli

Claiborne Farm sorge nelle campagne di Paris[1], paesino di ottomila abitanti a meno di trenta chilometri da Lexington. Ci si arriva grazie a una nostalgica mezzora di autentiche country roads, con curve assassine e dossi ciechi che tagliano le praterie collinose. Una specie di Umbria-Toscana in salsa americana, con la lieve differenza che tutto attorno si vedono solo recinti, cavalli al pascolo, cavalli ibernati, mucchi di fieno e di letame.  E qualche cimitero sparso, non si capisce bene se umano o equino. E’ il Kentucky che mostra i propri gioielli, mentre noi, rapiti dalle distese infinite e dall’erba inspiegabilmente verde, perdiamo per un paio di volte l’ingresso giusto. ???????????????????????????????Poi, finalmente, salutati da un cartello militaresco, imbocchiamo il viale che ci porta dritti all’ingresso di Claiborne Farm, dove Bernie ci aspetta nel parcheggio. “Benvenuti” ci dice, con il cantineloso accento della zona. C’è giusto tempo di una corsa in bagno – dove la sosta viene allietata dal poter dei Wildcats appeso proprio sopra la tazza del cesso. Un perfetto spunto per quello che, prigionieri del nostro orgoglio, avremmo voluto fare nei confronti dell’addetto stampa di cui sopra.

Il tour inizia a spron battuto. La prima tappa è la stanza più importante. Un box di pochi metri quadrati dove vengono portate le mares – le femmine – per l’accoppiamento con lo stallone. This is where everything happens dice orgoglioso Bernie, raccontandoci di come venti minuti di sesso bestiale bastino a portare a termine l’inseminazione e a portare denari freschi nelle casse della fattoria.

La stanza dove avvengono gli accoppiamenti. O il bordello, a seconda dei punti di vista.

La stanza dove avvengono gli accoppiamenti. O il bordello, a seconda dei punti di vista.

Ci porge un foglio pieno di cifre, in cui vengono riportati i dati per tutti gli stalloni della fattoria. Ogni stallone ha una scheda anagrafica, con le misure fisiche e due parametri monetari: quando ha incassato durante la sua carriera agonistica e, soprattutto, quanto hanno incassato (o stanno incassando) i suoi discendenti più illustri. E’ quest’ultima cifra a essere quella più importante per determinare la stud fee – il prezzo che il padrone della femmina dovrà pagare per l’accoppiamento. Si va dai 2500 dollari per Horse Greeley – appena ritiratosi dalle corse – ai 150mila (!) per War Front, la stella di Claiborne, il padre di alcuni dei cavalli più vincenti a livello planetario. E’ una sorta di scommessa sulla genetica: più hanno vinto i discendenti di quella stirpe, più sarà probabile che il nuovo nato, con l’adeguato addestramento, possa essere competitivo. Ma c’è anche chi, invece di puntare sulle vittorie, vende immediatamente il piccolo, cercando di guadagnare il più possibile nel processo.

Più protetti di Fort Knox.

Più protetti di Fort Knox.

Passiamo a visitare le stalle dove vengono rinchiusi gli animali di notte. Le placche in argento con i nomi dei cavalli creano un’atmosfera da grand hotel, ma è la sana puzza di sterco e di fieno a farla da padrone. Poi torniamo fuori, verso i recinti dove vengono tenuti gli stalloni di giorno. Rigorosamente separati, per evitare che si azzufino. Arriviamo davanti a quello di Orb, ex campione da poco adibito al ruolo di stallone. Bernie lo chiama, mostrando il palmo della mano, e lui arriva placidamente, attratto dalla caramella di menta. “La usiamo come strumento di educazione. Se capiscono cosa devono fare, caramella. Se sbagliano, niente caramella” dice Bernie, mentre si gode lo sguardo di ammirazione del pubblico. Porta il cavallo in mezzo ai presenti, per consentire loro di accarezzarlo o di somministrargli un’altra mentina. Bernie lo coccola a scapaccioni. He thinks he’s the man” dice bonariamente.

He thinks he's the man!

He thinks he’s the man!

Una frase che poi userà, immutata, per tutti gli altri stalloni che andremo a trovare, passando da un recinto all’altro. Tutti galli dentro al loro pollaio.

La visita prosegue, tra una raffica di vento e l’altra. Abbiamo le dita dei piedi gelate, ma gli altri membri del gruppo non demordono. C’è una nonna di Saint Louis con un’intera batteria di nipoti. Fa domande a raffica, strillando awesome! per ogni cosa che esce dalla bocca di Bernie. Racconta di gare leggendarie, di momenti indimenticabili. Quando lei era lì, a vedere il rush finale di una gara, e sentiva l’atmosfera, e capiva di essere nell’evento sportivo più bello che le fosse mai potuto capitare. La sua passione è pari a quella di molti abitanti del Kentucky. Quelli più abbienti acquistano quote dei cavalli (o cavalli interi) e scommettono sulle corse. Gli altri, quelli che seguono, si affezionano a un nome e lo sostengono sempre e comunque, un po’ come accade con un pilota di Formula 1. Il picco di attività febbrile arriva alla prima settimana di maggio, con il Kentucky Derby. L’unico evento sportivo a calamitare più attenzione locale di una partita dei Wildcats. In quelli che vengono normalmente considerati “i due minuti più esaltanti nello sport”, purosangue di tre anni si sfidano in diretta nazionale. Bernie racconta di una bambina che venne a visitare Claiborne Farm con la famiglia, e che si rifiutò di accarezzare uno dei cavalli, reo di aver soffiato la vittoria al suo beniamino in una recente gara. “Tornò dopo pochi mesi, e consegnò al cavallo una lettera di scuse”.

Siamo agli sgoccioli. L’ultima tappa è il cimitero dei cavalli.

Dormono, dormono sulla collina.

Dormono, dormono sulla collina.

Un cortiletto di pochi metri quadrati con una ventina di lapidi ordinate in maniera precisa. “Qui è sepolta la storia” annuncia Bernie, con un tono trionfale che poco si addice a uno spazio funebre. Snocciola una breve biografia dei defunti, soffermandosi però sulle gesta del leggendario Secretariat, uno dei purosangue più famosi mai esistiti. Nel 1973 inanellò la vittoria di Kentucky Derby, Belmont Stakes e Preakness Stakes. Un Grande Slam riuscito solo ad altri otto colleghi nella storia. Venne eletto dal network televisivo ESPN come il 35esimo sportivo più grande di sempre, e si meritò una rara sepoltura intera al momento della morte, nel 1989. “Di solito si seppelliscono la testa e il cuore. Ma di lui si è seppellito tutto. Quando morì si scoprì che il suo cuore pesava il doppio di quello degli altri. Un’anomalia, un segno della sua grandezza” chiude Bernie, visibilmente commosso.

La nostra sortita volge al termine. Bernie ci ricorda che, se abbiamo una cavalla e non sappiamo che uso farne, possiamo sempre consultare il sito di Claiborne Farm per farla mettere incinta da qualche ex campione. Il marketing aziendale, prima di tutto. I cancelli si chiudono dietro di noi, mentre gli stallieri vanno a recuperare bestie da milioni di dollari, accompagnandole docilmente nelle loro maleodoranti suite. Il loro lavoro richiede passione e grande delicatezza. Un errore può costare caro, viste le polize assicurative milionarie a cui sono sottoposte queste bestie. “Hanno assistenza sanitaria di gran lunga migliore rispetto a quella di un cittadino medio del Kentucky” ci ricorda Kristin mentre usciamo da quel mondo isolato. Dall’altra parte della fattoria, al di là di un fiumiciattolo artificiale, una ventina di mares pascolano tranquille, senza pericolo di risse. E’ quella l’ultima immagine della mattinata, che si chiude con un pranzo sostanzioso nell’unico locale aperto di Paris.

Downtown Paris. Avevamo detto di evitare battute facili, ma è come se avessimo già sgarrato.

Downtown Paris. Avevamo detto di evitare battute scontate

E’ un rifornimento energetico necessario, prima di passare all’esplorazione del bourbon e delle sue distillerie. Il secondo membro della triade che fa grande il Kentucky. Il terzo è il basket, e per oggi possiamo solo vederlo in tv.

(parte 1 – continua)

[1] inciso, per non perdersi in facili ironie: metà dei posti negli Stati Uniti porta il nome di una località europea, famosa o meno. Addentrarsi nelle analogie e differenze tra gli originali e le copie meriterebbe un post a sè stante. Ma forse anche no..

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