Attenti al vetro

Milwaukee, ore 11. Meno 20 gradi, raffiche violente, strade deserte. Una sera di ghiaccio e vento, come tante nel Midwest. Bucks-Spurs è finita, e noi siamo appena ritornati alla macchina. Un’ora e mezzo di autostrada, e siamo finalmente a casa, nella metropolitana Chicago. Che opprime, e poi manca terribilmente appena ne lasciamo i confini.

La partita è stata orrenda, ma il nostro lavoro, tanto di pubbliche relazioni quanto di bravi scribacchini, l’abbiamo fatto. Intervistina a Marco Belinelli per me, intervistone multiple a Tony Parker, Boris Diaw e Nando Decolo per Romain e Benjamin, giornalisti (e amici) francesi unitisi a me per questa breve trasferta.

Merda. Siamo pronti a partire, quando Romain nota qualcosa di strano. Il parabrezza della macchina ha una crepa orizzontale di almeno 30 cm. E quella c’è sempre stata? Io, ancora incredulo, dico che no, non c’era mai stata. Ma è piuttosto ristretta, per qualche motivo non fa paura. In allegria più totale decidiamo di partire comunque. Tanto Chicago è dietro l’angolo.

Passano cinque minuti. Il tempo di imboccare l’autostrada nella direzione di Minneapolis – Milwaukee è piccola, ma i suoi svincoli sono più infami di quelli del porto vecchio di Genova -, e ritornare nella direzione giusta. Appunto, il tempo di compiere queste mirabolanti azioni, e si sente un piacevole rumorino. Un colpo secco, niente altro. 30 secondi di silenzio, poi tutti i viaggiatori vengono a patti con la realtà. La crepa si è raddoppiata, e ora si estende per oltre metà de parabrezza.  Nell’espansione, ha persino preso un’artistica curvatura uncinata. Is it expanding? chiedo io, cercando di ritardare l’incontro con la realtà. Yes, it is. risponde secco Romain senza fare una piega, dal sedile a fianco al mio.

Segue un momento di concitazione e imprecazione. Voci incontrollate propongono soluzioni di dubbia efficacia. Qualcuno suggerisce di uscire dall’autostrada, mettersi su una bella stradina locale con quattro dita di ghiaccio, e guidare a 30 all’ora fino a Chicago. Che così, se anche il vetro cede, non ci arriva in faccia tutto di un colpo. Qualcun altro vorrebbe tornare a Milwaukee. Sono le 11 di sera, ma almeno sei in una città, non in un deserto di capannoni. E’ già un passo avanti. Per un attimo ci sfiora persino l’idea di rischiarla. Magari alla fine non cede dice uno dei due compagni di viaggio. Infine, dopo un’altra dozzina di proposte, si opta per il compromesso più razionale. Uscita per il General Mitchell International Airport, perlustrazione della zona, e parcheggio dinamico nel primo motel che troviamo. E’ un solido Motel 6 con stile essenziale e il competitivo prezzo di 39 dollari per notte (in tutto, non a testa). La ricerca di qualcuno che ripari il vetro è rimandata al mattino successivo.

All’ingresso, un uomo in carrozzella fuma una sigaretta nel gelo. Al suo fianco, un tizio corpulento guarda il vuoto e aspetta. Salutano a fatica. A fianco della reception – se così si può chiamare – c’è attaccato un cartello con i prezzi. Ci sono quelli per la notte, e i weekly rates, le tariffe settimanali. Che non sono fatte per chi vuol farsi la settimana bianca tra queste pianure industriali, ma per chi – e in USA sono tantissimi – non ha altra scelta che vivere qui, in quella che è considerato il gradino di decoro immediatamente prossimo a quello dei senzatetto. Del resto, motel così – che pure costano più di 800 dollari al mese – non vogliono depositi, non chiedono applications, non vanno a guardare l’affidabilità finanziaria che impedirebbe a molte persone di ottenere una casa popolare. E così, diventano l’unica soluzione per avere un tetto sopra la testa. Trasformandosi, nel mentre, in una trappola che impedisce a molte famiglie qualsiasi forma di risparmio e ascesa sociale, catturandole in questa terra di nessuno. E’ una realtà silenziosa, sottotraccia, di cui si parla pochissimo. Venirci a contatto, sia pure per pochi minuti, ci ricorda bruscamente dove possono arrivare i picchi di disperazione di questo complesso paese. 

Just like in Vegas, dice Benjamin mentre facciamo irruzione in camera. Ci si presenta davanti un piccolo frammento di motel-landia. Due letti matrimoniali, una Bibbia, vista su un parcheggio deserto e ghiacciato. E la pizza a domicilio di Domino’s pubblicizzata sulla chiave. Potremmo essere in California o a New York, e, ghiaccio a parte, sarebbe tutto uguale. Parte un’ispezione accurata per scongiurare la presenza di bed bugs, le temutissime zecche che vivono nelle lenzuola e sono abbastanza facili da trovare negli alberghi, anche in quelli di livello superiore a questo. Via libera, si può dormire. Spegniamo il riscaldamento – una stufetta che spara aria calda simulando il rumore di un jet in decollo – e proviamo a riposarci.

Otto di mattina, ci risvegliamo intirizziti. Una doccia al volo, poi si va ad affrontare il gelo. La tempreatura è ancora scesa. Gli IPhone dei francesi dicono che le raffiche percepite arrivano a meno 30. Ma la crepa nel vetro, per fortuna, non si è ulteriormente espansa. La nostra meta è il già leggendario Safe Auto Glass, a meno di cinque chilometri dal motel. Guidiamo nella suburbia che abbraccia qualsiasi città americana, attraversando filari di case tutte uguali. Poi raggiungiamo finalmente 27th Street, con l’altrettanto suburbana sfilata di benzinai, spiazzi, catene di fast food e negozi di ferramenta. Non esattamente il quadrilatero della moda, nè il Magnificient Mile. Il posto ha un’ insegna minuscola, al confine con un rivenditore di parti di auto usate e un improbabile centro di abbronzatura a buon mercato. Varchiamo la porta, ritrovandoci in un locale di forse cinque metri quadrati. Sembra l’inizio di una barzelletta: un italiano e due francesi con un parabrezza crepato entrano in un car glass di South Milwaukee.

“Good morning. What’s your problem?” ci dice il capo da dietro al bancone. Ha accento strano. Non forte, ma sicuramente non americano. Indossa un cappello, un giubbotto e occhiali spessi.  Davanti a lui, un individuo aspetta appollaiato sulla sedia, con sguardo assente. Inizia a parlare Benjamin con il suo accentino francese, sperando che, grazie alla sua assicurazione auto, si riesca ad ottenere qualche agevolazione. Il nostro, però, non lo lascia nemmeno finire. “Non siamo mica in Europa qui, dove le assicurazioni pagano tutto” dice a voce altissima e riso di scherno, facendo capire di aver capito benissimo la nostra provenienza. Principio di tensione, intevengo io prima che la situazione peggiori. Spiego il problema, ottengo un preventivo per cambiare il vetro. Accettiamo, veniamo invitati a sederci sulle rimanenti sedie. Tempo stimato: due ore.

Vorremmo fare colazione, ma l’unico posto a portata di cammino è il negozio di un benzinaio, con le sue invitanti paste a lunga conservazione. A me andrebbe benissimo, ma Benjamin, salutista di ferro, preferisce aspettare.  Il tipo del negozio decide di mostrare la sua ospitalità e ci offre un tè. “Tè buonissimo, ce l’ho solo io. Dopo averlo provato, avrete la voglia di tornare a trovarmi tutti i giorni” dice. Assonnati, quasi disperati, accettiamo l’offerta. L’uomo sparisce nel garage e torna con tre tazze fumanti. “Fatemi sapere che ne pensate” ci dice, porgendoci le tazze a temperatura prossima alla fusione. Le appoggiamo a terra, prima di sorseggiare con grande calma il classico Lipton di pedestre qualità, di quelli che non sanno di niente e macchiano la tazza come se fossero infusi di petrolio. All’unisono esprimiamo immensa gratitudine e apprezzamento.

Pochi minuti dopo, Romain chiede se può usare il bagno. Il nostro, serissimo, risponde “Sì, ma ti costa due dollari”. Momento di silenzio. “Ma va! Non siamo mica in Francia qui. Puoi pisciare liberamente!” sghignazza poi il tipo, visibilmente divertito, mentre indica a Romain la porta del cesso. La mummia di cui sopra ha un guizzo, accenna a un ghigno. Il talento per la diplomazia deve essere la specialità della casa. Quando Romain torna dai bisogni, il nostro torna all’attacco. “Siete francesi allora? Anche tu?” urla rivolto a me da dietro al bancone, sovrapponendosi alla tv. Romain risponde per me, non si capisce bene se irritato o divertito. “No, lui è italiano”. “Oh. In Francia sono stato malissimo, in Italia invece è andata alla grande” ribatte il nostro, sganciando l’ennesima bomba.

Segue un batti e ribatti continuo. Il nostro si lancia in tristi racconti di scali a Charles de Gaulle con la madre in carrozzina e il personale aeroportuale cattivissimo. Addetti alla sicurezza che non volevano parlare inglese. Gente in coda che li invitava a lasciare il paese. E lui, paladino della libertà, a sfidare quella sporca congiura, giurando di non ritornare mai più in Francia. Romain e Benjamin, dopo aver ascoltato attentamente, sono ormai stati trascinati nella conversazione. Arrivano dal fronte transalpino risposte che provano a ricomporre la frattura. Parlano di inglese come lingua globale, di scarsa attitudine del popolo alle lingue straniere, del pericolo delle generalizzazioni, dell’inefficienza organizzativa degli aeroporti parigini. Ma il dialogo è difficile. L’interlocutore finge di ascoltare, ma poi riprende ad accumulare prove delle sue teorie. Ha pensieri anche sull’Italia. “Siete persone gentili, ma gli aeroporti di Milano sono da rifare”. Io annuisco. Ha perfettamente ragione. “Però a Fiumicino sono gentilissimi. Mi hanno pure dato il resto metà in euro e metà in dollari”. Celebro con lui il grande valore del popolo romano.  Si va avanti per mezzora, fino a che l’amico decide di sparigliare le carte in tavola. “E io di dove sono secondo voi?”

Parte la caccia alla risposta. Il Sudamerica viene subito escluso, così come l’Asia orientale ovviamente. Verrebbe da dire uno stato mediterraneo, ma tutti i tentativi falliscono. Quando qualcuno dice “Egitto”, la faccia dell’uomo si illumina. Risposta sbagliata, ma ci stiamo avvicinando. “Lì vicino, lì vicino” ci incoraggia. E prima che noi avessimo il tempo di continuare con la sparatoria di tentativi, la mummia in attesa, fin lì tappezzeria o poco più, decide di destarsi dal torpore. “South Africa!” urla, convinto della sua proposta. L’amico dietro al bancone lo guarda allibito. Questa volta sono Romain e Benjamin a sghignazzare, mentre io rimango impassibile. “Ma come South Africa! Ma ho detto che era vicino all’Egitto!” si lamenta l’amico. Ma il tipo non si scompone. There are caucasians in South Africa”, “ci sono dei bianchi in Sudafrica” spiega, volonteroso di farci capire che la sua risposta aveva dietro un ragionamento preciso. L’amico decide di terminare il gioco. “Vengo dalla Palestina, ma vivevo in Kuwait prima di venire qui”. L’uomo sulla sedia, preso da un attacco di nostalgia, ha già dimenticato l’imbarazzo e si commuove al ricordo della Guerra del Golfo. Were you there when all that shit happened? Eri là quando successe tutto quel casino? “No, ero appena partito per gli USA. Mi è andata decisamente bene” rispose il nostro.

Passa un’ora. La chiave della macchina è ancora lì. Ci sono decine di telefonate, clienti disperati. Evidentemente, riparare il parabrezza è un’esigenza popolare in Wisconsin. Abbiamo estratto i nostri computer e stiamo lavorando – o fingendo abilmente di farlo – dalle scomode sedie. Entra un personaggio di colore. Scruta l’ambiente e sta per andarsene. “Dove vai? Sei nel posto giusto!” gli urla il nostro dal solito bancone. I thought it was a fucking computer store! dice il tipo di passaggio. “No, no. E’ che loro sono i nostri nuovi impiegati. Registrano tutte le informazioni dei clienti e le rendono pubbliche al mondo” incalza il nostro, in chiara ispirazione cabarettistica. Con i clienti ci sa fare. Segue risata di tutti. Il tipo di passaggio, scosso, racconta la propria storia. Dice che una persona l’ha fermato per strada, lui ha tirato giù il finestrino per capire che cosa volesse,  e quello ha sparato un colpo di pistola. Miracolosamente, il proiettile ha colpito il vetro dietro. Che ora ha bisogno di manutenzione. Senza fare una piega, il nostro gli calcola un preventivo. “Non fermarti per strada, hai imparato la lezione?” dice mentre armeggia con il computer.

Passa un’altra ora, durante la quale la vita di South Milwaukee ci si mostra in tutta la sua insospettabile diversità. Ci viene persino chiesto di aiutare a creare un po’ di spazio per una mamma con un bambino di forse un anno, avvolto in un coperta che ne copre pure la faccia. Del resto, siccome le proprietà meccaniche del vetro sono sempre le stesse, negozi come questo diventano come i nostri barbieri: lame perpendicolari alle divisioni sociali, capaci di concentrare in pochi metri persone che non avrebbero assolutamente nulla a che fare. Soprattutto nella suburbia diluita di una città del Midwest.      

A mezzogiorno, dopo oltre tre ore di attesa, la macchina è finalmente pronta, con un vetro nuovo di pacca.  “Avete avuto fortuna a trovare me, i miei prezzi non hanno paragone con nessuno” ci dice l’amico. Chiediamo se si possano togliere i pezzi di nastro isolante blu in cima al nuovo parabrezza. “Sì, ma aspettate sabato, che non si sa mai” risponde lui, stringendoci la mano. “Spero di aver reso la vostra esperienza a Milwaukee migliore di quella che ho avuto in Francia”. “Oh, quello di sicuro” rispondono i francesi. Poi, finalmente, si torna nella Wind City. Dove arriviamo nel primo pomeriggio, con il vetro ancora integro e circa quattrodici ore di ritardo rispetto a quanto pianificato per la trasferta. Il termometro segna meno 10, e viene voglia di mettersi in maglietta.

 

 

 

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2 Responses to Attenti al vetro

  1. Roberto G. says:

    Spettacolare, come sempre. Concordo sugli svincoli di Milwaukee…

  2. Beh…cos’è questa crociata contro il the Lipton?Adesso lo dico a quel perfezionista di Carlton, che se lo gusta immancabilmente ogni mattina (però poi mica lo pulisce l’alone della tazza…) 🙂

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