We are Marquette

Lungolago di Milwaukee. Voglia di tuffarsi

Lungolago di Milwaukee. Voglia di tuffarsi. Per le anatre.

L’orizzonte è bianco, immobile. Ghiaccio a perdita d’occhio, mentre anatre ai limiti della follia nuotano tra gli iceberg. L’aria è avvolta di una luce strana. Arriva dal Canada senza barriere, colpendo tutto quello che trova. Ogni tanto, passa un maratoneta in tuta termica, bardato fino ai limiti dell’irriconoscibilità. Il tempo si è fermato lungo il lago. Sono le 10 di mattina, ma potrebbero anche essere le  3 di pomeriggio.

Sembra Antartide, ma è Milwaukee. La patria di Fonzie e della Harley Davidson, vi direbbero gli scrittori viaggiatori che transitano velocemente da queste parti.  Ma loro ci vengono in estate, per poche ore, quando le spiagge sono piene, l’acqua di Lake Michigan è una brodaglia eutrofizzata, e le famiglie afroamericane grigliano interi maiali sui barbecue portatili.

In inverno, invece, è tutta un’altra cosa. Passeggiando lungo le sponde, sembra che la vita sia andata in letargo, in attesa del disgelo.

Ameno lungolago. Non fatevi ingannare dalle apparenze: quell'edificio alto, in fondo, è Villa Carlotta

Pedalata per sgranchirsi. Quello in fondo, per la cronaca, è l’Art Institute di Milwaukee. Non ne parliamo nel pezzo qui a fianco perchè impegnati da cose ben più importanti.

E invece, a poche centinaia di metri da quello scenario polare, il Bradley Center e i pub che lo circondano traboccano di boccali e di passione. Come se tutta la città si fosse ritrovata lì, a celebrare in compagnia il delirio collettivo della partita. Milwaukee è una città sportiva vera, nonostante le dimensioni ridotte e l’ombra ingombrante della vicina Chicago. Ed è una città sportiva pura, stabile e vivace nelle sue passioni, senza il fantomatico “giro” di spettacolo che dovrebbe attirare le stelle e spingere la gente che conta ad andare alle varie partite. Del resto, di glamour ce ne è ben poco, almeno per i parametri convenzionali: in uno stato che si distingue per produrre birra, latte e formaggio, l’aria fritta non può essere di casa. Ma poi, questo glamour, cosa sarebbe esattamente?

Durante i mesi invernali, il weekend significa una sola cosa, anzi due: college basket, e Marquette Golden Eagles, con gli squadroni della Big East che devono sempre faticare l’impossibile, e spesso le pigliano di santa ragione. Poi ci sono i Bucks e la NBA, che però, come in tutte le zone ad alta densità di febbre collegiale, sono giusto un riempitivo legato ai risultati, se non addirittura una piccola barzelletta, su cui nessuno perde il sonno. Anche perché a primavera ricomincia il baseball, e l’attenzione si sposta dal Bradley Center a Miller Park, con buona pace di Antetoukounmpo e compagni.

Un titolo, una Final Four: questo è il palmares di Marquette. Una bacheca come tante, di per sé insufficiente a giustificare il delirio che attanaglia i tifosi a ogni partita interna. Ma tifare non è un discorso di input e output. Soprattutto se c’è di mezzo l’identificazione con il proprio ateneo, che da queste parti è molto di più di una fabbrica di esami. Il campus sorge un paio di miglia a ovest della stazione ferroviaria, su un’impercettibile collina che, in terre piatte come queste, è considerata la più scoscesa delle alture.  Nonostante contenga già un impianto sportivo di discrete dimensioni, i Golden Eagles (meglio noti col nome storico, ma poco politicamente corretto, di Warriors) giocano tradizionalmente al Bradley Center, dove sono pure di casa i Bucks. E il paragone, in termini di atmosfera e partecipazione, è impietoso. In teoria, l’unica differenza è che il simbolo del cerbiatto viene sostituito dalle due lettere “MU”, acronimo dell’ateneo. In pratica, stiamo parlando di due pianeti diversi. Impossibile per il blando pubblico NBA reggere il confronto con quanto accade durante le partite di college. La scatenata “student section”, le prime file di abbonati abbienti e ribollenti, il colpo d’occhio gialloblu che abbraccia  i tre anelli di posti dell’arena, le standing ovation spontanee che accompagnano i possessi decisivi delle partite tirate. “We are Marquette” è il grido di battaglia, che quando viene rilanciato da ventimila spettatori si infila sottopelle e sembra non volersi staccare mai. E’ vero, una volta, tra i professionisti, c’erano Big Dog Robinson, Ray Allen, Sam Cassell, e si arrivava alla finale di conference. Ancora prima Kareem Abdul Jabbar e Oscar Robertson, e arrivò pure un titolo. Ma la spaccatura tra i due mondi resta incolmabile, anche quando le cose in NBA vanno bene. Figuriamoci adesso.

Colpo d'occhio dal basso: Marquette University

Colpo d’occhio dal basso: Marquette University

Colpo d'occhio dal basso: Milwaukee Bucks (era così anche all'inizio, non fatevi ingannare da minuto e punteggio)

Colpo d’occhio dal basso: Milwaukee Bucks (era così anche all’inizio, non fatevi ingannare da minuto e punteggio)

Parlando di canestri, due nomi sono storicamente associati a questa università. Uno è Dwyane Wade, e le presentazioni non servono. Cresciuto a Chicago, convinto a trasferirsi a Milwaukee dall’offerta dell’allora coach Tom Crean: giocò divinamente e trascinò i Golden Eagles alla Final Four del 2003, prima di scalare lo star system NBA. L’altro è coach Al McGuire, a cui è anche intitolato il campo di allenamento situato nel campus. McGuire è uno di quei personaggi fuori da ogni logica, che nel mondo dello sport universitario sembrano trovare terreno più fertile che altrove. Irascibile fino alla follia, imprevedibile anche nelle sue mosse più scontate. Fu l’unico in grado di trascinare Marquette a un titolo nazionale, nel 1977, ultimo dei quattordici anni spesi sulla panchina dei Warriors. Bastò questo a proiettarlo per sempre nell’immortalità, al punto che, girando per il campus, la sua statua sembra un monumento votivo con contorni religiosi, quasi l’ateneo fosse stato fondato da lui, invece che dai padri gesuiti. Addirittura gli venne dedicata un’opera teatrale, mentre nei negozi del Bradley Center e dell’università si vendono statuette in miniatura che riproducono la sua figura. Sia lui che Wade si beccano regolarmente l’ovazione più calorosa quando viene proiettato sul maxischermo il video storico, una sorta di rapidissima carrellata su tutti i personaggi che hanno giocato un certo ruolo nelle imprese passate dell’università. Al vedere le schiacciate di Flash in maglia gialloblu, gli occhi dei tifosi brillano di una luce strana. Un po’ come i figli di Michael Jordan che, nel cuore della notte, si trovano in casa Bugs Bunny e Daffy Duck che rovistano tra l’abbigliamento sportivo del padre. Sguardi rapiti dall’incanto, sospesi tra “non può essere vero” e “ma sì che è vero”, mentre il video va oltre e lascia solo l’inafferrabile sensazione di un mistero mai capito. Così era Dwyane per Marquette.

Ci sarà un prossimo? E chi sarà? I nomi papabili sono due: Wesley Matthews e Jimmy Butler, anche se nessuno arriverà ai livelli di Wade. I due giocatori sono figli di due classi diverse, sovrappostesi per un solo anno.

Wesley Matthews in versione scivolamento difensivo. Foto del gennaio 2009

Wesley Matthews in versione scivolamento difensivo. Foto del gennaio 2009

Il primo, da sempre realizzatore micidiale che per motivi misteriosi venne trascurato al draft, era ancora una creatura di Crean, prima che il coach venisse coperto di milioni per aizzare le folle alla Assembly Hall di Bloomington, Indiana, lasciando un ricordo dolceamaro. Il secondo invece è un’invenzione esclusiva e favolosa – nel senso letterale del termine – di Buzz Williams, l’attuale allenatore di Marquette. Che andò a recuperarlo da un community college del Texas, scommettendo su un ragazzo con una storia complicatissima, senza genitori, senza direzione, senza attenzioni da parte del mondo NCAA. L’esperimento, però, andò alla grande. Guidato dal temperamento di Williams – un altro che sembra pazzo, e forse lo è realmente – Butler divenne da subito l’emblema della versatilità, mostrandosi capace di fare l’esterno, l’ala o addirittura il centro, nei quintetti piccoli e aggressivi che piacciono così tanto al coach. “Mi diceva sempre: Cosa succede quando ti rovesci? Lì viene fuori la verità. Non è che se metti dentro acqua poi ne esce coca cola” ci avrebbe poi raccontato Jimmy qualche anno in seguito, subito dopo una delle tante belle prestazioni con i Chicago Bulls. “Williams mi ha sempre sfidato, dentro e fuori dal campo. Mi ha insegnato a non dare mai niente per scontato. Qualcosa è qui oggi e domani potrebbe non esserlo più”.

Ma se Butler è sulla rampa di lancio come giocatore, Williams stesso sta imponendosi come un signor allenatore. Dove in pochi anni di carriera – ha iniziato nel 2008 – ha già creato un suo stile di gioco: quintetti minuscoli, pressione esagerata sulla palla, transizione. Un mix che ogni tanto produce bassi punteggi, ma regala partite a intensità forsennata. E vince le partite. Poi, a tutto questo, si aggiunge lo stile del personaggio. Williams è il prototipo di un matto sfuggito misteriosamente da un ospedale psichiatrico. Rasato a zero, tarchiato, senza collo, conduce la partita con sguardo spiritato, macinando chilometri avanti e indietro lungo la linea laterale. Entra in campo corricchiando e stampando cinque a tutta la student section in fervente attesa. E  lo fa con metodo, andando a colpire una a una le mani dei tifosi, e intrattenendosi in zona per un paio di minuti. Ma quello che accade in campo è solo un antipasto allo spettacolo offerto in conferenza stampa. Alla quale Williams si presenta tre quarti d’ora buoni dopo il termine della partita, sudato fradicio, con un asciugamano al collo.

Buzz Williams in conferenza stampa. L'asciugamano è per asciugarsi il sudore, non le lacrime. (ovvero, non è Walter Mazzarri)

Buzz Williams in conferenza stampa. E’ tutto sotto controllo. Nella mano sinistra ha l’asciugamano, in quella destra la cravatta.

E prima di parlare, passa cinque minuti buoni a rompere le scatole ai giornalisti locali. “Hanno mandato te oggi? Il tuo capo non riteneva fosse una partita sufficientemente importante?” chiese una volta a una giovane reporter del Chicago Tribune, condannandola a passare i successivi cinque minuti a nascondere l’imbarazzo sul volto. Quando arriva una domanda, non la ascolta nemmeno. “Hey, how are you?” chiede prima che il reporter potesse aprire bocca. “So, did you enjoy the game? Did we play well?”. La controparte, quasi sempre, sta al gioco. Ridacchia, rilancia, aspetta un fazzoletto di spazio utile in cui sparare la domanda che ha in canna. Alla quale Williams risponde con monologhi  infarciti di I’m proud of my guys (sono orgoglioso dei miei ragazzi) qui e là. Sembra che il giocatore sia lui, dal tanto che è intenso.

La partita è finita, mentre fucilate di vento a – 15 gradi  colpiscono gli spettatori all’uscita. O forse no, visto che si vedono frotte di tifosi in calzoncini corti e felpona giallonera, ancora in clima partita. Alla faccia del gelo. La maggior parte attraversa la strada ed entra a Major Goolsby’s, Milwaukee’s sports headquarters.

Ci vediamo da Goolsby, prima o poi

Ci vediamo da Goolsby, prima o poi

Ce lo fece conoscere un carpentiere di South Milwaukee in una mattina di gennaio del 2009, alla nostra prima apparizione in città per un nobile Marquette-Cincinnati. Il carpentiere, altrimenti noto come Rich, era il padre adottivo di un nostro concittadino italiano durante il suo anno di scambio liceale, proprio a Milwaukee. Ci accompagnò alle porte del Bradley Center con la sua monovolume, dicendoci semplicemente “Per il dopo partita, lì”. Mai consiglio si è rivelato migliore.

Major Goolsby’s è più di un pub. E’ un sogno erotico. Sin da poche ore prima della palla a due, accederci è sostanzialmente impossibile: si vede solo una massa gialloblu che occupa ogni fazzoletto di spazio disponibile. Fino al 2010 si respirava anche una densissima nuvola di fumo, prima che la città decidesse finalmente di bandirlo dai locali pubblici. Dopo la sirena finale, il pub torna a riempirsi: questa volta per mangiare e commentare a caldo, smaltendo l’adrenalina della partita e dilatando di qualche mezzora il rientro a casa. Tra queste mure, tutto ha un fascino mistico. A partire dal menu: un pezzo di cartone impregnato di macchie d’olio secolari, con la consueta selezione infinita di birre – siamo in Wisconsin, colonia americana della Germania – e perle gastronomiche di prima punta. Tra cui un vasto assortimento di burger, alette di pollo come se piovesse, e inconfondibili patatine fritte dalla forma di candelotti di dinamite, rese arancione vivo da un magistrale processo di friggitura.

In tutto questo, quello che è valso a questo posto la menzione tra i dieci migliori sports bar degli USA è però l’arredamento interno. Più precisamente, il meraviglioso labirinto visivo di schermi infissi su ogni spazio libero del locale.

Un appassionato potrebbe chiudersi qui dentro e passare intere settimane senza rapportarsi al mondo esterno. Per gli appassionati di NCAA, il pericolo peggiore è presentarsi qui durante la Championsip Week delle conference “minori”, appena prima della March Madness. Una volta – sono passati ormai troppi anni – capitammo qui a inizio marzo. Ci fiondammo su un tavolo strategico, con angoli perfetti per tenere sotto controllo fino a cinque televisioni contemporaneamente. Con l’ausilio di una dose generosa di patatine, ci sparammo due finali e tre semifinali in diretta, quasi contemporaneamente. Tornammo in stazione ubriachi di basket, e per un quarto d’ora non volemmo più saperne di aprire un sito che trattasse di palla al cesto. Poi, tentati dal wi-fi gratis della stazione, cedemmo di schianto. Il tabellino di Western Kentucky-Southern Alabama era troppo importante.

Fine della giornata, tempo di tornare in stazione, a pochi passi dal Bradley Center. Al casino dei pub e del palasport fa da contraltare la solitudine siberiana delle vie del centro, rotta solo dalle scarpe che grattano sul sale del marciapiede. Gli edifici sono alti, ma non imponenti. L’architettura simil-nordeuropea, retaggio della massiccia immigrazione germanica e scandinava che ha interessato il Wisconsin due secoli fa, li rende più dolci rispetto agli aggressivi siluri dello skyline di Chicago.

Hai detto glamour?

Hai detto glamour?

Il traffico della domenica è tenue, quasi fioco, come portata e come rumore. Solo verso 6th Street lo scenario cambia: montata in un’insolita piazzola, una pista di pattinaggio offre un guizzo di vita. Il contrasto tra l’opacità del ghiaccio e il verdone intenso dell’insegna di Starbucks è l’unico guizzo cromatico in un panorama dominato dai colori chiari. La semplicità di quel quadretto è la stessa che si ritrova nei boccali di birra, nei canestri, nella passione sportiva. Con buona pace del glamour.

(questo contributo è stato anche pubblicato dagli amici di Hoops Democracy. Anzi, nasce in un certo senso da una loro idea. Senza la loro spinta e il loro interesse non sarebbe probabilmente nemmeno stato scritto. Sapete dunque con chi dovete prendervela)

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